SANREMO 2013/ L’analisi musicale: Mengoni è quello che vuole il Festival, peccato per Annalisa

- Walter Muto

Il festival è finito: che cosa rimane dal punto di vista musicale. Ce lo spiega WALTER MUTO: il rimpianto per Annalisa che meritava di più, la delusione Max Gazzè e i meriti di Mengoni

mengoni_balti_fazio_littizzetto_sanremo Marco Mengoni al Festival l'anno scorso

Sarebbe stato veramente troppo. Sì, sarebbe stato eccessivo se dopo aver spazzolato a mani basse (e giustamente) sia premio Mia Martini della critica che premio per il miglior arrangiamento, Elio e le Storie Tese avessero vinto anche il Festival. Anche perché avremmo avuto per la prima volta il Festival della Canzone Italiana vinto da una non-canzone. La canzone mononota (parola che peraltro è anagramma di monotona) è l’anti canzone per eccellenza e al tempo stesso lo spiega, in maniera auto referenziale. Tutti sono alla ricerca della melodia perfetta, quando invece basta cantare tutto su una nota sola. E come si vince l’inevitabile monotonia (o meglio mononotìa)? Con un continuo, caleidoscopico mutare di stili, arrangiamenti, strumenti, in un crescendo irresistibile di citazioni, tratte dai mondi musicali più lontani e messe in un unico calderone. Entertainment all’ennesima potenza, in una complessa partitura eseguita impeccabilmente dal vivo dagli Elii (musicisti di altissimo livello tecnico) e dall’orchestra di Sanremo, che finalmente suona. 

Viene alla memoria da una parte il pluricitato (a proposito e talvolta no) Frank Zappa, ma ancora di più il per niente citato Carl Stalling, che per vent’anni lavorò alla Warner Bros. componendo le colonne sonore dei cartoni animati più famosi. Provate ad ‘ascoltare’ un cartone animato di Bugs Bunny o Gatto Silvestro senza guardarlo, e l’impressione sarà simile. 

Ma andiamo al vincitore, Marco Mengoni, amatissimo dal pubblico, con quella sua espressione da ‘non sono mai al posto giusto’ e una canzone riuscita, seppur cantata, a nostro modesto avviso, indulgendo un po’ troppo sull’oversouling, quel vibrare e incedere sulle note alte dileggiato proprio da Elio nel testo della sua canzone. Una vittoria piuttosto telefonata, annunciata, prevista e forse proprio per questo meno goduta dal nostro, che si è emozionato un pochino solo a bocce ferme, davanti al microfono di Mollica qualche minuto dopo la fine del Festival. L’essenziale è tagliata su di lui come gli abiti che indossava cantando: storia d’amore sentimentale, tendente al patetico ma asessuata, per lasciare incertezza sul destinatario del messaggio. Vittoria che riporta il Festival in un alveo più consono, più previsto, meno innovativo e meno rivoluzionario. 

Due band e un solista sul podio, non so se era mai successo, bisognerebbe consultare l’albo d’oro o chiederlo a Marino Bartoletti. Però è un fatto, anche se i Modà, terzi classificati appartengono a un mondo di confine: sono una band ma chi scrive è esclusivamente il leader, e scrive in uno stile tutto sommato melodico. L’esecuzione vocale attrae e cattura, stimolando pareri contrastanti. La fidelizzazione dell’ascoltatore fa il resto. 

Due parole sul vincitore della bistrattata sezione giovani. Innanzitutto, quest’anno non è stato nemmeno fatto cantare nella serata finale, esecuzioni dei pezzi sempre a tarda notte: è sulle nuove proposte che si dovrebbe puntare e investire e invece ciò non accade più, volendo trovare subito la gallina dalle uova d’oro. In compenso si trovano sempre più giovani già nella categoria Big senza esserlo. In ogni caso Antonio Maggio ha trovato il pezzo giusto, surclassando sia la bravissima Ilaria Porceddu, che il raffinato Renzo Rubino, che l’unica band arrivata in finale, i Blastema. 

Ha vinto con una canzone tipicamente tormentone, che nel suo ripetere ‘e farmi male e farmi male’ vagamente ha ricordato l’incedere martellante del pulcino pio, ma che non è solo questo, iniziando lenta come una romanza e presentando anche una parte centrale dello stesso stampo. In qualche modo una canzone moderna, ma non stereotipata. Sicuro martello radiofonico. 

Che dire del resto? Mie personali delusioni (rispetto alle aspettative): Gualazzi, brano e personaggio troppo presuntuosi, pur osannatissimo da più parti; Malika Ayane, canzone discreta ma che non decolla; Max Gazzè, che ho amato per altre canzoni ma che qui non mi convince proprio. 

Piacevoli sorprese: su tutti Annalisa, che come già detto più volte, ho trovato molto precisa vocalmente, con un bel timbro e un bel carattere, non atteggiata e sbarazzina, non preoccupata o timorosa di cantare. Coraggioso Daniele Silvestri che, a parte il tema, francamente un po’ trito e nostalgico, presenta una canzone ariosa, libera nel ritmo e per metà lirica e per metà popolare, quasi stornellesca. Degli altri abbiamo già detto tanto nei giorni scorsi, inutile dilungarsi ora. 

In definitiva due vincitori molto simili, due facce di una medaglia tipicamente italiana: il racconto piuttosto scanzonato di una storia storta ed il tentativo annegato nel sentimento dolciastro di rimetterne una dritta. Storie di tutti i giorni, si potrebbe commentare citando il titolo di un’altra canzone vincitrice poco più di trent’anni fa. Sipario chiuso, alla prossima. 





© RIPRODUZIONE RISERVATA

I commenti dei lettori

Ultime notizie

Ultime notizie