DIMISSIONI BERLUSCONI/ La festa triste di un’Italia divisa tra Montecchi e Capuleti
Sotto il cielo di Roma è andato in scena uno spettacolo in cui gioia e odio erano due facce della stessa medaglia alla notizia dell'addio di Silvio Berlusconi. Il commento di MONICA MONDO
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole di Roma, anzi d’antico. Piazze in festa, in odio contro Berlusconi. Con una piazza è finita la Prima Repubblica, con una piazza finisce la Seconda, se è mai cominciata. Effetti del bipolarismo, si dirà. Se catalizzi l’azione politica su due poli opposti crei ostilità, rivalse. O di qua o di là, e non importa se la realtà è un’altra, perché le sfumature contano, e non ci sono blocchi monolitici ad accogliere serenamente tutti. Hanno molto più in comune Alfano, Letta (uno e due), Lupi e Casini che non i rispettivi con Vendola e Di Pietro, con Verdini o Dalla Vedova, o lo stesso Bossi. Perché non si è costruito su queste unità, invece che sulle contrapposizioni forzose, legate solo a logiche di numeri e potere? Così si dà la stura agli slogans, alle fazioni di contestatori e sostenitori e così abbiamo visto i cortei, le sbandierate, i cori inneggianti alla liberazione di sabato sera. Sono sgradevoli in sé, non si infierisce su un nemico vinto. Non importa se guelfi e ghibellini, Montecchi e Capuleti segnano la storia di tante piazze e dell’unica Italia.
Un tempo ingabbiavano pure i condannati a essere rosi dai corvi, non è necessario e fatale essere stupidi e violenti. Che poi, quel nemico, non è stato vinto, questo è il punto. Il governo Berlusconi non è stato battuto da una sinistra che non ha programmi né progetti futuri ed è sopravvissuta solo grazie all’odio contro Berlusconi. E’ stato battuto da una curiosa convergenza economico-finanziaria, che non consentiva altra via d’uscita che Monti, guarda caso. Uno degli amici degli amici degli amici, di qua e di là dall’oceano.
E’ stato battuto dalle sue inadempienze, dalle sue contraddizioni. Quel che si deve fare, va fatto, e non si può menare il can per l’aia in Europa giurando riforme che non puoi attuare, pena perdere pezzi di fedelissimi e alleati. La cosa strana però è che quelle piazze di indignados festanti quelle riforme non le vorrebbero, non le vorranno. Che le loro rabbie e frustrazioni , represse per qualche mese, dovranno trovarsi un altro bersaglio, che sia Monti o Renzi, chissà. Non è la ragione a muoverli, neanche le tante ragioni spicciole: come allo stadio, e li disgusterbbe il paragone, hanno bisogno di insulti, corna e sputi.
Come al Colosseo, devono usare il pollice, per decretare la sopravvivenza o la morte di un avversario. Non gliene importa nulla del bene comune, delle sorti del paese, dell’economia europea. Volevano la morte del capro espiatorio (sono diverse dalle folle che hanno violentato e sbranato Gheddafi e i suoi uomini? Quelli erano in guerra, ci hanno messo un po’ più di energia, ma il principio è lo stesso).
Folle Aizzate colpevolmente, ma è da quel dì, da capipopolo in doppiopetto che sibilano odio dagli schermi tv e giornali, mentre fingono di prendersi sulle spalle il pesante fardello delle responsabilità per affrontare le emergenze e costruire un’alternativa di solidarietà. Sperano che ci crediamo?
La positività però c’è: esistono uomini, di qua e di là, che sopportano, sospirano, poi si tirano su le maniche e hanno intenzione di mettersi a lavorare. Hanno bisogno di noi, anche per far la guardia alle piazze. Non per contrappore un’ideologia a un’altra. Non per ribattere con la dialettica. Ci vogliono opere, fatica, intelligenza, e anche il coraggio di giudicare. Domani, quando torniamo in ufficio o a scuola, non temiamo di essere considerati filoregime se critichiamo le orde coi clacson pigiati del Lungotevere, le file davanti a Palazzo Chigi a tirar monetine. Non abbiamo paura. Guai a pensare che è meglio non alzare la voce, lasciar correre, tanto poi passa. Non passa, peggiora.
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