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Home » Politica » IL CASO/ Col Rosatellum il Parlamento non serve più: l’ultima “genialata” di Matteo & Silvio

  • Politica

IL CASO/ Col Rosatellum il Parlamento non serve più: l’ultima “genialata” di Matteo & Silvio

Mario Esposito
Pubblicato 8 Novembre 2017
senato_aula_voto_fiducia_lapresse_2016

L'Aula del Senato (LaPresse)

Fornire una qualche legittimazione grosso modo democratica (o plebiscitaria) alle "minoranze attive" e ai loro capi: ecco il senso del Rosatellum. Commento di MARIO ESPOSITO

Se, come ha affermato anche la Corte costituzionale, il diritto di voto è essenziale forma di esercizio della sovranità appartenente al popolo e, quindi, ad ogni singolo cittadino, allora la legge elettorale appena promulgata appare lontana dall’esserne uno strumento di attuazione.

Per una volta, non occorre neppure scendere nei dettagli (e men che meno dedicarsi all’opera di “confronto e collazione” tra sentenze della Consulta e testo approvato dalle Camere, per di più a colpi di fiducia) per sollevare dubbi di legittimità costituzionale: basta considerare la finalità cui la legge risponde, per come è dato di desumerla dalle sue disposizioni.


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Ne emerge che l’obiettivo perseguito — conformemente ad un riflusso oligarchico, purtroppo sempre più ampio — è piuttosto quello di approntare una qualche legittimazione grosso modo democratica (o plebiscitaria) alle “minoranze attive” e ai loro capi (in questi termini si esprime testualmente il Rosatellum bis, concedendo tuttavia che l’individuazione del capo della forza politica non pregiudica “le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’articolo 92, secondo comma, della Costituzione”, in forza del quale il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri). 


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Basti  pensare alla forzata coniugazione tra il voto in sede maggioritaria e quello in sede proporzionale (che la dice lunga sull’effettiva natura del sistema prescelto…), la quale corrisponde alla (più generale) inversione del rapporto tra rappresentante e rappresentato, a favore del primo, quasi che esso, riecheggiando vecchie teorie di matrice non democratica, fosse tale a prescindere dall’investitura elettiva.

Esemplare poi l’ostracismo verso le preferenze, pretesa causa di corruzione (senza darsi carico di verificare se davvero la loro eliminazione abbia incrementato il tasso di onestà dei rappresentanti), benché siano invece un essenziale corredo di efficienza determinativa del voto individuale, dal momento che, stando alla Costituzione, il rapporto rappresentativo si costituisce tra gli elettori ed i singoli parlamentari. Al loro posto si insedia il “ritrovato” — asseritamente sostitutivo — delle liste corte o cortissime, che, tuttavia, agisce soltanto sul versante della discrezionalità dei gruppi già organizzati, lasciando comunque gli elettori privi della capacità di individuare il soggetto ritenuto meritevole di rappresentarli.


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E molti altri rilievi critici potrebbero formularsi: ma interessa soprattutto notare il declino della stessa “identità” del Parlamento quale corpo dei rappresentanti, piegato (e, purtroppo, con crescente frequenza piegatosi) in vari modi e per varie cause ad una mera funzione di “avallo” delle scelte degli Esecutivi e dei blocchi di comando che attorno ad essi si aggregano. 

In questa stessa prospettiva pare possa leggersi la recentissima vicenda della nomina del Governatore della Banca d’Italia. Non già nel merito, ovviamente, bensì in riguardo alla singolare tesi secondo cui ogni interferenza parlamentare sull’argomento sarebbe suscettibile di minare l’indipendenza e l’autonomia della carica. Si tratta di un’opinione con scarso fondamento giuridico: se al Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, spetta di formulare la proposta di nomina (art. 19, co. 8, l. n. 262/2005), è evidente che le Camere, quali titolari del rapporto fiduciario, ben possono adottare tutti gli atti tipici di tale rapporto, non essendovi alcuna disposizione (che peraltro sarebbe di dubbia legittimità costituzionale) che ne sottragga la nomina in questione. 

D’altra parte, com’è noto, l’ufficio del Governatore non è più a vita, bensì limitato a sei anni, con la possibilità di un solo rinnovo del mandato: caratteri oggettivamente idonei ad innestare un elemento fiduciario nell’atto di preposizione. Così stando le cose, non si vede davvero perché il Parlamento dovrebbe essere tenuto del tutto estraneo ad una fattispecie di così spiccato rilievo, se solo si pensa, per un verso, all’art. 47 Cost. e, per altro verso, alle funzioni del Sistema europeo delle banche centrali.

Menar scandalo per il sol fatto che sia stata presentata una mozione parlamentare concernente la nomina del Governatore (quando, solo per fare un autorevolissimo esempio, la Bank of England è regolarmente soggetta ad audizioni dinnanzi al Treasury Select Committee della House of Commons) suscita quindi l’impressione che si voglia scongiurare il rischio che la rappresentanza nazionale si sovrapponga ad altre “forze di influenza”, appartenenti ad altri “circuiti”, ancorché ed anzi proprio perché non formalizzati. 


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