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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Dall’io al noi, la “mania dell’eterno” di Clemente Rebora

  • Letture e Recensioni
  • Cultura

LETTURE/ Dall’io al noi, la “mania dell’eterno” di Clemente Rebora

Tiziano Mariani
Pubblicato 27 Agosto 2013
LETTURE/ Dall’io al noi, la “mania dell’eterno” di Clemente Rebora

Per Clemente Rebora la poesia è uno strumento per andare al fondo della vita, ma mai è più necessaria della vita stessa. TIZIANO MARIANI sul recente lavoro di Gianfranco Lauretano

Per Clemente Rebora la poesia è uno strumento per andare al fondo della vita, ma mai è più necessaria della vita stessa. TIZIANO MARIANI sul recente lavoro di Gianfranco Lauretano

Ci sono poeti che scrivono molto; e poeti che invece misurano il loro gesto artistico, lo centellinano, quasi lo conservano come un buon vino. Clemente Rebora rientra nel gruppo dei secondi, il gruppo che, almeno per chi scrive, contiene un buon numero dei migliori. Quattro raccolte ufficiali (Frammenti lirici 1913, Canti anonimi 1922, Curriculum vitae 1955, Canti dell’infermità 1956), più un certo numero di testi d’occasione che non sono entrati in quelle. Eppure l’esperienza poetica di Rebora merita una monografia come questa proposta da Gianfranco Lauretano, perché è nel ristretto novero di quelle che hanno lasciato il segno nel Novecento pur appartenendo, in modo solo apparentemente paradossale, a una linea perdente, o almeno minoritaria.


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Nei manuali di letteratura italiana si parla di Rebora nell’ambito dei poeti cosiddetti Vociani, un gruppo di letterati caratterizzati da una forte e austera aspirazione morale e da una certa tendenza all’espressionismo. Due elementi, questi, che certamente caratterizzano il primo Rebora, ma che, sebbene rimodulati secondo dinamiche imposte dal percorso umano e artistico della sua vita, ritornano come costanti in tutta l’opera, anche dopo il lungo silenzio poetico tra Canti anonimi e Curriculum vitae.


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Proprio seguendo la trama di questi incontri si struttura il lavoro di Lauretano. Un lavoro interessante per svariati motivi. Innanzitutto, Lauretano ha il merito di una scrittura leggera, semplice e profonda nello stesso momento, che si traduce in un filologismo accessibile, divulgativo tutt’altro che banale. Inoltre, è davvero significativa la scelta di ripercorre questo itinerario umano e poetico (un vero e proprio itinerarium mentis in Deum) a partire dagli incontri decisivi in una biografia ricca, sebbene pacata e austera. Con questa scelta si entra nel cuore della poetica del Nostro: la poesia è uno strumento per andare al fondo della vita, ma mai la precede, mai la sovrascrive, mai è più necessaria della vita stessa. In questo Rebora è davvero antinovecentista; nel ventesimo secolo, infatti, se il poeta non può più essere un vate alla maniera di D’Annunzio o Carducci, aspira però a essere una sorta di sacerdote di una élite ristretta in grado di fruire del gesto artistico.


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Rebora no; in tutto il suo percorso, dalla formazione mazziniana, al trauma della guerra (e all’episodio, davvero illuminante, della diagnosi di “mania dell’eterno” come motivo della necessità che il poeta fosse riformato), alla conversione tra il 1929 e 1930, fino all’incontro con Rosmini e al sacerdozio, vive la tensione, tutta dantesca e manzoniana diremmo, a fare del proprio io poetico un noi, un noi corale e popolare, un noi universale. Poesia come espressione del mondo, e di un popolo; in questo, e solo in questo, necessaria. 

A questa convinzione Rebora non viene mai meno, ed essa costituisce uno fattori di continuità più evidenti tra il cosiddetto Rebora “vociano” e quello “religioso”della seconda fase. A questo proposito, ecco un altro dei meriti del lavoro di Lauretano: l’equilibrio del giudizio critico. I critici a volte sbagliano, è ovvio. Nel caso in questione, un errore diffuso nella critica è quello di considerare la fase vociana come l’espressione più genuina del Nostro, a scapito della seconda fase. Invece, tra prima e seconda fase c’è un sottile ma robusto filo rosso, c’è la continuità ininterrotta del flusso vitale scandito dagli incontri. Non a caso Lauretano sottolinea come il testo più famoso di Rebora (Dall’immagine tesa, un capolavoro, il testo che chiude la seconda raccolta e che contiene in nuce buona parte dell’universo artistico, categoriale e umano reboriano) sia “il punto centrale della storia poetica di Rebora, il foro della clessidra attraverso cui i grani di sabbia passano da una parte all’altra della sua vita” (p.134). Dunque, continuità; anche a livello artistico. Quella continuità che, come acutamente suggeriva Giovanni Raboni, in Rebora è garantita dalla stessa statura artistica del silenzio, tanto che persino gli anni del silenzio devono secondo lui essere considerati una fase vera e propria.

Insomma, nell’anno del centenario della prima edizione dei Frammenti lirici, Lauretano ci offre con garbo e convinzione un lavoro di valore, che ripropone all’attenzione di tutti la vicenda di un poeta che davvero non ha smesso di parlare a chi abbia la pazienza di ascoltarlo.

–
Gianfranco Lauretano, “Incontri con Clemente Rebora”, Bur saggi, Milano 2013 


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