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Home » Cultura » MILANO/ Il destino della colomba sono gli artigli dell’aquila?

  • Cultura

MILANO/ Il destino della colomba sono gli artigli dell’aquila?

Laura Cioni
Pubblicato 16 Maggio 2010
milano_tram_pioggiaR375

La nostra guerra si chiama calcolo, parola tipicamente borghese. È così che la colomba viene arraffata dagli artigli dell’aquila, non per essere portata in alto, ma per morire. Un articolo di LAURA CIONI

Cronaca di una lotta contro la malinconia che assedia giornate pesanti di pioggia. Afferma Virgilio in alcuni versi della nona Bucolica che la poesia conta tra le armi della guerra quanto le colombe al sopraggiungere dell’aquila. Più vicino a noi, una cartolina spedita alla moglie pochi giorni prima di morire da uno dei soldati caduti a Nassiriya nel 2003: “Saluti da questi luoghi ricchi di storia che la pochezza degli uomini ha reso infelici”.


LETTURE/ M.T. Anderson e quei "ladri d’ossa" che rubarono le reliquie di san Nicola


Noi non viviamo costretti all’esilio da territori confiscati e neppure in mezzo alle bombe, però molto spesso siamo vittime di relazioni che ci provocano una tristezza che non passa, per quanto ci sforziamo di svagarci o di pensare ad altro. Parlarne con altri non serve, e neppure riflettere su quanto Gesù stesso possa essere stato ferito dalla grossolanità degli uomini con cui viveva.


MONTAGNA/ Dall'Argentera al Tricorno, le Alpi di Camanni: 30 cime e un "mondo" da salvare


La nostra guerra si chiama calcolo, parola tipicamente borghese, per quanto sia antipatico anche solo scrivere questa parola. Il calcolo di quanto abbia ragione io, di quanto torto abbia tu nel vano sforzo di misurare col bilancino la nostra giustizia; il calcolo di quanto tu mi servi, di fino a che punto ti possa usare in modo tale che l’estraneità reciproca non venga scalfita.

È così che la colomba viene arraffata dagli artigli dell’aquila, non per essere portata in alto, ma per morire. Così il nostro povero cuore bisognoso di gratuità e di grandezza diventa meschino nelle grinfie della misura.


LETTURE/ "Il Papa delle cose nuove", capire l'enigma-Prevost tra codici binari e Agostino


Clicca >> qui sotto per continuare l’articolo

 

È interessante notare che la parola meschino, da una radice araba risalente all’antichissimo accadico, porta con sé il significato di misero e triste, anzi in Dante è usata unicamente con l’accezione di “servo”. Se osserviamo le cose come stanno non possiamo non avvederci che la meschinità provoca sia in chi la subisce sia in chi la vive come sistema di comportamento, a prescindere dalla consapevolezza che se ne ha, una sorta di restringimento degli orizzonti e di asfissia. Forse è per questo che san Paolo supplica in modo così commovente i cristiani di Corinto di fargli spazio nel loro cuore, non solo perché la sua parola venga accolta, ma soprattutto perché egli li ama e nota che “è nei vostri cuori che siete allo stretto”.

 

Abbiamo tutti bisogno di allargare i paletti della nostra tenda o, come dice una bella pubblicità della Lacoste, di “un peu d’air sur la terre”. Del resto nella memoria di ciascuno è indelebile il ricordo di qualche attimo vissuto con una persona cara, una parola, uno sguardo, un abbraccio, rari momenti in cui appartenenza e libertà fanno tutt’uno, in cui l’estraneità pare vinta senza che il legame diventi una ragnatela soffocante.

 

Sono questi frammenti conservati che aiutano a superare la delusione sempre in agguato e la conseguente pretesa che l’altro capisca e corrisponda; essi indicano che la meschinità ricorrente non è l’ultima parola, che è possibile quella magnanimità in cui l’uomo dimostra di non essere servo, ma veramente padrone di sé. Allora l’attesa del ripetersi di ciò che è stato può diventare più certa e più buona.

 

 


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