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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Castore e Polluce, quando l’affetto umano muove la pietà del dio

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LETTURE/ Castore e Polluce, quando l’affetto umano muove la pietà del dio

Giulia Regoliosi
Pubblicato 16 Agosto 2015
greciaantica_mitoR439

Foto dal web

Il mito grecoromano conosce molte storie di fratelli, spesso divisi da questioni dinastiche o di potere: ma non è stato così per Castore e Polluce. Ne parla GIULIA REGOLIOSI

Il mito grecoromano conosce molte storie di fratelli, spesso divisi da questioni dinastiche o di potere: è il caso dei figli di Edipo, uccisi in un duello vicendevole per il regno di Tebe, o dei protagonisti della primigenia leggenda romana, Romolo primo uccisore e Remo primo ucciso, la cui morte ancora pesava nella memoria dei discendenti come origine e causa infinita del protrarsi delle guerre civili. 


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Ma vi sono anche vicende di affetti e legami costanti e fedeli. Una di queste riguarda Castore e Polluce, la cui storia, come tante in cui si inseriscono gli dèi, ci è tramandata con molte varianti. Siamo a Sparta, dove regna Tindaro, sposo di Leda: hanno quattro figli, ma solo una di essi, Clitennestra dal triste e fosco destino, è legittima prole del re. Leda è desiderata da Zeus e come altre spose fedeli è raggiunta dal dio con un misterioso inganno: Elena, la figlia più giovane, ricorderà la straordinaria tradizione della sua nascita, a cui lei stessa fa fatica a prestare fede, nell’omonima tragedia euripidea. Lo sposo divino in forma di cigno genera la bellissima portatrice di sventura, perseguitata fin da impubere dalla fama della sua straordinaria avvenenza. Ma a Sparta nascono anche due principi gemelli, la cui paternità è contrastata. Tradizionalmente sono chiamati i Dioscuri, cioè i “giovani figli di Zeus”, termine che ne indicherebbe la sicura paternità divina. Ma esiste anche la tradizione che li fa figli di Tindaro, oppure nati in un solo parto da padri diversi, come un altro figlio di una sposa fedele, Eracle, nato in un solo parto col fratello umano Ificle. 


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Grandi atleti, eroi arditi, i due fratelli partecipano alla prima spedizione collettiva del mito greco, il viaggio degli Argonauti per la conquista del vello d’oro; mentre la fedeltà al legame familiare li conduce alla ricerca della giovanissima sorella, rapita da Teseo ben prima che le sue nozze con Menelao e la fuga con Paride portassero alla nuova spedizione collettiva contro Troia. 

E’ proprio a Troia, nel terzo libro dell’Iliade omerica, che troviamo nominati per la prima volta i due fratelli in un testo letterario, anche qui in riferimento ad affetti familiari. Sta per svolgersi nella piana davanti alle porte Scee il duello fra Menelao e Paride che dovrebbe concludere la guerra ormai logorata da un inutile assedio decennale. Elena si reca sugli spalti dove si trovano gli anziani della città insieme al re e i vecchi troiani l’interrogano gentilmente sui personaggi dell’esercito greco che osservano dall’alto. Elena li descrive uno per uno, ma il suo cuore è teso verso i due che dovrebbero esserci ma non ci sono: “Non riesco a vedere gli ordinatori di genti, Castore domatore di cavalli e Polluce abile nel pugilato, fratelli che mi generò una sola madre; o non sono venuti dall’amabile Sparta, o sono giunti qui sulle navi che solcano il mare, ma ora non vogliono partecipare alla battaglia di uomini, temendo molto disonore e vergogna da parte mia”. 


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C’è nella donna la coscienza della colpa commessa, che ha causato una guerra e tante morti, ma soprattutto un dolore e un’onta familiare che impedirebbe ai fratelli, pur valorosi guerrieri, di farsi vedere nell’esercito. Omero però racconta una storia diversa: “Così disse, ma già li copriva la terra feconda a Sparta, la loro patria”. E’ strano come il poeta, che su tanti miti si sofferma a lungo anche interrompendo una narrazione, qui si limiti alla scarna notizia. Da Elena e dal poeta stesso sappiamo solo la comune maternità, ma non la paternità, e l’evidente condizione di mortali che in modo e tempo ignoti ha unito i due prima che guidassero a Troia, come maschi della dinastia, il popolo su cui avevano la responsabilità ordinatrice. Ma già nel secondo libro, presentando i diversi contingenti dell’esercito greco, Omero aveva attribuito il comando degli Spartani a Menelao, il genero del re, segno dell’assenza di figli maschi. 

Dobbiamo a Pindaro la ricostruzione di una delle più commosse varianti del mito dei gemelli. Nella X Nemea racconta che Castore, qui il gemello solo umano, viene ferito in una lotta; Polluce accorre presso il morente e prega Zeus, suo padre, di concedergli di morire con lui. Il dio è sconcertato da questa fedeltà fra fratellastri di origine così immensamente diversa: “Tu sei mio figlio. In seguito ha generato lui, ponendo in tua madre il suo seme mortale, l’eroe suo sposo. Ma ti concedo una scelta: se evitando la morte e l’odiosa vecchiaia vuoi vivere sull’Olimpo con me e Atena e Ares dalla nera lancia, hai questa sorte; se invece lotti per tuo fratello, e pensi di dividere tutto con lui, puoi stare per metà sotto terra, e per metà nelle auree dimore del cielo”. 

Polluce sceglie senza esitare la seconda possibilità, salvando così la vita del fratello: “E sciolse gli occhi e poi la voce di Castore dalla bronzea cintura”. Altre varianti considereranno entrambi i fratelli immortali, tanto da farne i protettori dei naviganti e l’origine della costellazione dei Gemelli. Questa di Pindaro comporta un legame fraterno e una dolorosa rinuncia: anche perché, come spesso avviene per i doni degli dèi pagani che non capiscono gli uomini e i loro affetti, i due fratelli divideranno mortalità e immortalità ma resteranno così divisi fra loro. 


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