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Home » Milano » CASO A2A/ Quando la partecipazione pubblica non è solo inutile, ma dannosa…

  • Milano

CASO A2A/ Quando la partecipazione pubblica non è solo inutile, ma dannosa…

Carlo Masseroli
Pubblicato 9 Gennaio 2012
Contatore_ElettricitaR400-1

Foto: Imagoeconomica

Chiuso malamente il capitolo Sea, commenta CARLO MASSEROLI, si apre a Milano il dibattito su A2A. L’obiettivo dichiarato dalla giunta non cambia e denuncia una scarsa visione strategica.

Chiuso (male) il capitolo Sea, si apre a Milano il dibattito su A2A. L’obiettivo dichiarato dalla giunta non cambia e denuncia una scarsa visione strategica: coprire il buco del bilancio comunale per mantenere inalterata la spesa pubblica (spesso inefficace e inefficiente). Le posizioni a sinistra denunciano grande confusione e discordi orientamenti, per lo più originati da radicate convinzioni ideologiche. Il Sindaco, da parte sua, pare favorire un grande progetto industriale intorno ad A2A che coinvolga le altre ex municipalizzate del nord per la creazione di un forte operatore industriale a controllo pubblico. L’ipotesi, apparentemente orientata all’interesse pubblico, risulta in effetti dannosa. I tagli delle manovre che si sono susseguite evidenziano che siamo ad un punto di non ritorno. Il Comune non può continuare a dare risposte complessive, dalle mense agli aeroporti, dai teatri all’energia, un interventismo a tutto campo, che ha tracimato nell’arcipelago di società più o meno partecipate. È stata avanguardia pubblica, ora è conservazione. Il modello va ripensato; il rapido cambiamento del contesto economico rende urgente una vera riforma del ruolo dei comuni: riduzione e qualificazione del ruolo pubblico, da interventista a regolatore, da dispensatore di beni e servizi ad attento controllore. Il caso A2A non deve sfuggire a questa traiettoria. Il fatto che i Comuni di Milano e Brescia detengano ad oggi la maggioranza assoluta dell’azienda, infatti,non garantisce in nessun modo il prevalere dell’interesse pubblico. Non garantisce l’interesse pubblico dal punto di vista dell’utente. Il mercato di energia e gas è ormai liberalizzato: residenti e imprese possono scegliere il proprio fornitore in ragione di prezzo e qualità del servizio. La proprietà pubblica ha forse in questi anni determinato prezzi più bassi? Evidentemente no. Dico di più: il comune, in difficoltà economica, è portato a considerare l’azienda come una fonte di entrate da dividendi mettendola paradossalmente nelle condizioni di proporre al mercato prezzi meno concorrenziali. In altre parole, i milanesi finiscono per pagare anche attraverso le tariffe di gas ed energia una tassa occulta per la sopravvivenza della ipertrofica macchina comunale. Non garantisce l’interesse pubblico neanche dal punto di vista dell’azienda. La stagione delle concessioni dirette è ormai alle spalle e la copresenza di due logiche opposte nella governance (il socio pubblico mira inevitabilmente solo a incamerare flussi di cassa dall’azienda) rappresenta una vera e propria zavorra allo sviluppo industriale e alla capacità di investimento.


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Va peraltro rilevato che il forte indebitamento rende i creditori più determinanti nella governance aziendale rispetto agli stessi azionisti. La nostalgica immagine della vecchia AEM comunale che investe sul territorio e lo mette in condizione di concorrere a livello internazionale non trova più spazio nella realtà. La recente trattativa con EDF, nella quale l’amministrazione comunale è stata spettatore silente e totalmente ininfluente, ne rappresenta un segnale inequivocabile. In sintesi, paradossalmente, la partecipazione pubblica non solo è inefficace ma addirittura nociva. Fatte queste considerazioni è inaccettabile la proposta di Pisapia che pare più orientata alla gestione del potere (leggasi poltrone) che all’interesse pubblico. Le società miste, tipiche del nostro paese, sono peraltro fonti “naturali” di corruzione (non per niente la cultura amministrativa anglosassone giustamente le aborrisce). E’ dunque maturo il tempo in cui il pubblico faccia il suo mestiere, e i privati facciano il loro. Ai soggetti pubblici tocca far rispettare regole trasparenti per un vero mercato (leggasi forte authority), a quelli privati di gestire bene le imprese. La strada maestra deve dunque portare ad un modello anglosassone (in cui non è prevista la partecipazione pubblica nell’azienda) o, in subordine, verso un modello tedesco (in cui la partecipazione non campanilistica dei municipi è di netta minoranza e non entra nella governance industriale). Se questa è la strada da percorrere, le premesse purtroppo ci lasciano fortemente preoccupati. La recente vendita di quote Sea, oltre ad aver lasciato innumerevoli zone d’ombra, ha ottenuto esattamente quella commistione pubblico – privato da evitare, con l’aggravante che il privato comanda con il 30 % e il pubblico subisce con il 51%.


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