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Home » RECENSIONE/ “High Violet” dei The National, dal sottobosco indie alla Casa Bianca

RECENSIONE/ “High Violet” dei The National, dal sottobosco indie alla Casa Bianca

Simone Nicastro
Pubblicato 4 Maggio 2010
TheNationalHighViolet_R375

Da band portabandiera di un certo sottobosco musicale made in USA alla visibilità totale e globale. Ecco la storia dei The National e del loro ultimo album, "High Violet". Il racconto di SIMONE NICASTRO

A volte ci sono ancora storie da raccontare. Nella memoria collettiva mondiale l’elezione del primo Presidente degli USA afroamericano è stato un evento che ha segnato inequivocabilmente l’evoluzione dei tempi. Per un ristretto numero di fan della musica rock questo ricordo è associato anche alla canzone scelta dallo stesso Obama come colonna sonora della sua campagna elettorale: Fake Empire dei The National.

Da band portabandiera di un certo sottobosco musicale americano (all’epoca già quattro album all’attivo) a una visibilità totale su ogni canale di comunicazione attraverso le canzoni dello splendido album “The Boxer”.
A conferma di tutto questo persino uno dei brand più importanti al mondo come Google li ha voluti per una campagna pubblicitaria su internet.

“High Violet”, in uscita per la storica etichetta 4AD, è il nuovo album della band statunitense che nei prossimi mesi porterà il peso di far comprendere a pubblico e critica qual è il ruolo che i The National potranno avere in futuro nel panorama musicale mondiale.
In alcune recenti interviste Matt Berninger e soci hanno dichiarato di aver scritto e composto questo nuovo disco come tutti quelli precedenti avendo solo a cuore di rendere i brani più “diretti” rispetto a quelli precedenti.

Non so dire se l’obiettivo sia stato raggiunto ma sicuramente questo album va ad aggiungere nuove perle ad una discografia già molto copiosa in tal senso.
Terrible Love primo brano del lotto fa subito centro con una produzione volutamente low-fi, distorsione onnipresente sul fondo e ritmo in crescendo fino al trascinante finale chitarristico.
Il tema ricorrente nell’album è l’amore analizzato in ogni sua forma, compiuta e incompiuta, dolorosa o “quasi” pacificante.

Con Sorrow e Anyone’s Gone l’incredibile voce baritonale di Matt Berninger sale in primo piano e adagiandosi nel primo pezzo su una ballata inesplosa ("Cause I don’t wanna get over you, I don’t wanna get over you") e nel secondo su una batteria marziale e contagiosa ("Didn’t want to be your ghost, didn’t want to be anyone’s ghost”) ci racconta di storie impossibili da dimenticare e dell’ossessione di non arrendersi alla inevitabile verità.

L’amore può essere espresso anche per il proprio paese di origine: Bloodbuzz Ohio destinata a diventare un piccolo nuovo anthem del gruppo regala forse il lato più pop del disco con un ritornello quanto mai cantabile e delle chitarre ariose e melodiche.
Johnny Cash non avrà mai più eguali probabilmente nella storia della musica americana ma ascoltare al tramonto Runaway vi permetterà di sperare che qualcun’altro comunque porterà avanti la sua tradizione e la sua dolente memoria (“We don’t bleed when we don’t fight. Go ahead, go ahead. Lose our shirts in the fire tonight”).

L’amore verso i figli e la paura per loro in un mondo che non è certo tra i migliori possibili è alla base di Afraid Of Everyone, una marcia ossessiva non priva di incisività con in primo piano le scansioni della batteria, una tastiera usata a modo di coro e le chitarre che duettano con i pochi vuoti della voce.
La bellissima Lemonworld e l’epica Conversation 16 ci aiutano a capire che volendo i The National potrebbero sfruttare molto di più la loro nuova visibilità per scalare qualsiasi classifica di genere.

E in conclusione un brano dove gli archi sono usati come non ci si sarebbe mai immaginato da questa band: Vanderlyle Crybaby Geeks è quella ballata che fa alzare lo sguardo al cielo come a voler cogliere un segno che cambierà le cose anche nelle lacrime.

I The National confermano con “High Violet” di aver affrontato la popolarità inaspettata senza cedere il passo a facili cambiamenti mantenendo il loro binomio alternative-classic e candidandosi ancor più di prima a capifila della scena rock americana. Insieme all’unico e solo Mark Lanegan ovviamente.

(Simone Nicastro)


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