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Home » Politica » Recovery Fund come Piano Marshall?/ Gabanelli “Importi simili, ma ecco le differenze”

  • Politica
  • Economia e Finanza

Recovery Fund come Piano Marshall?/ Gabanelli “Importi simili, ma ecco le differenze”

Alessandro Nidi
Pubblicato 8 Febbraio 2021
Mario Draghi (LaPresse)

Mario Draghi (LaPresse)

Il Recovery Fund può essere paragonato al Piano Marshall? Ecco analogie e differenze fra la situazione italiana di oggi e quella di allora...

Il Recovery Fund può essere considerato alla stregua dello storico e indimenticato Piano Marshall? È questo il delicato parallelismo che Milena Gabanelli e Danilo Taino hanno tentato di costruire per “Dataroom – Corriere della Sera”, ricordando che Piano di ricostruzione dell’Europa fu denominato Marshall in onore al Chief of Staff dell’esercito USA che lo ideò. Associarlo anche solo idealmente al Recovery Fund è tuttavia un azzardo; infatti, quel piano non riguardò unicamente una questione economica.


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“Allora – rammenta la coppia di giornalisti – c’erano Paesi completamente da ricostruire, la manodopera costava niente, il mondo dei commerci era chiuso. C’era una leadership crescente, e in quei giorni governavano statisti veri, temprati in una delle tragedie maggiori della Storia. Nominalmente, l’European Recostruction Plan (Erp) analizzò 13,3 miliardi di dollari dagli Stati Uniti a 16 Paesi europei tra l’aprile 1948 e il giugno 1952: la Spagna non faceva parte del Piano in quanto dittatura”. Rispetto ai giorni nostri, “l’osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, però, ha calcolato che il miliardo e mezzo di dollari che arrivò in Italia con il Piano Marshall corrispose al 9,2% del Pil italiano medio di quegli anni. Se si considera che il Pil italiano del 2019 è di 1.787 miliardi, il 9,2% corrisponde a 164 miliardi di euro, non molto meno dei 206 del Recovery Fund”.


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RECOVERY FUND COME PIANO MARSHALL? L’ANALISI DI GABANELLI

Per quanto concerne il Piano Marshall, Gabanelli e Taino sottolineano che “l’Italia fu la terza beneficiata, con 1,5 miliardi. Da Washington arrivavano beni al Governo, il quale versava il corrispettivo del loro valore a un fondo di contropartita intestato al Tesoro, destinati a ridurre il debito e agli investimenti. Ma arrivò di tutto, dal rame a prodotti siderurgici, dalle sementi e concimi alla gomma sintetica”. Tuttavia, con il denaro ricavato dalla vendita a privati di queste merci, 300 miliardi, il ministro del Bilancio, Luigi Einaudi, “ne utilizzò solo 62 per fare investimenti, così ripartiti: 14 miliardi andarono alle imprese private per lo sviluppo della siderurgia, 32 passarono all’Imi per sostenere importazioni dagli Usa, 8 servirono a sostenere il turismo e altri 8 sovvenzionarono le costruzioni navali. Il resto venne messo nella stabilizzazione della moneta e valorizzazione del risparmio. Una politica che ridiede fiducia nell’Italia agli investitori e pose le basi per il boom degli anni successivi”.


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RECOVERY FUND COME PIANO MARSHALL? DRAGHI…

Come raccontano Gabanelli e Taino “i prestiti del Piano Marshall andarono soprattutto alle grandi industrie, quindi in Piemonte, Lombardia e Liguria, allora Triangolo Industriale. Dunque la stabilizzazione macroeconomica, la ripresa nella fiducia nel Paese dopo la sconfitta bellica, la ricostruzione iniziata e investimenti, portarono a risultati superiori a quelli previsti”. Quali? Nel 1952 il reddito nazionale centrò la previsione a livello 117; la produzione industriale toccò 149 contro il previsto 140; i passeggeri sulle ferrovie arrivarono a quota 233 contro un’aspettativa di 200; i trasporti via mare arrivarono a 173 rispetto al 125 pianificato. “Un successo – concludono i giornalisti –, anche se alcuni economisti sostengono che la crescita dell’economia e l’arrivo in Italia di un sempre crescente benessere forse ci sarebbero stati anche senza il Piano Marshall. Impossibile saperlo. Non è però detto che senza l’Erp le Sinistre non avrebbero vinto le elezioni del 1948. A quel punto l’Italia non sarebbe entrata nel mercato occidentale e men che meno nella comunità europea. E qui sta la differenza finale con l’oggi: la statura di chi fece e fa scelte politiche. Forse proprio pensando a Einaudi è stato chiamato Draghi”.


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