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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Esquirol: la “ferita infinita” che ci fa esplorare il senso della vita

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LETTURE/ Esquirol: la “ferita infinita” che ci fa esplorare il senso della vita

Angelo Campodonico
Pubblicato 2 Febbraio 2022
Vincent Van Gogh, Notte stellata sul Rodano (1888), particolare

Vincent Van Gogh, Notte stellata sul Rodano (1888), particolare

Merita una lettura approfondita l'ultimo lavoro del filosofo Josep Maria Esquirol, "Umano più umano. Un'antropologia della ferita infinita"

Non è mai facile stabilire che cosa pensi effettivamente sul senso della vita l’uomo d’oggi, anche a motivo dei veloci e imprevedibili mutamenti tecnologici e culturali avvenuti negli ultimi decenni, non ultimo la pandemia e le sue conseguenze. Talora si potrebbe pensare che non si espliciti nettamente la domanda sul senso della vita, perché si teme che non vi sia una risposta risolutiva e si rinunci così a spingere fino in fondo l’acceleratore del desiderio.


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Ma c’è un dato che s’impone non appena si rifletta con serietà andando oltre uno scientismo o naturalismo evoluzionistico che, restando alla superficie, sembrerebbe spiegare tutto appiattendo e banalizzando e che talora ha corrotto perfino la nostra capacità d’immaginare altrimenti: la vita, la nostra vita è un mistero.


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Che la vita sia un mistero significa almeno che la domanda sul senso è aperta a diversi possibili esiti. E tale mistero si manifesta innanzitutto e soprattutto, come già sottolineava Hannah Arendt, nel fatto della nascita: che ciascuno di noi sia al mondo qui ed ora con queste caratteristiche fisiche e psicologiche, con questa storia, con questa particolarissima individualità, con questo preciso nome e, insieme, con questa apertura all’infinito della ragione e del desiderio. Che tu ed io siamo qui è radicalmente inspiegabile. Non è il dato della inevitabilità della morte, orizzonte che  certo incide profondamente sulla vita quotidiana di chi vive da sveglio (come scriveva Eraclito), ad essere prioritario. Ma lo è il fatto che in un preciso momento della storia siamo nati. La morte è la conseguenza inevitabile del fatto di essere viventi e finiti, ovvero la conseguenza del fatto che si è nati, che ora si è e prima non si era. Ma – a ben vedere – l’eccesso del venire dal nulla con la nascita eccede l’eccesso del destino mortale. Ed è proprio questa sproporzione a rendere possibile la speranza. La speranza è custodire l’incredibile che siamo perché nella vita viviamo già in certa misura il senso, grazie appunto all’evento della nascita.


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Su questo e altri temi fra loro connessi si sofferma la riflessione del filosofo catalano Josep Maria Esquirol in un volume – l’ultimo di una trilogia – tradotto recentemente da Vita e Pensiero (Umano più umano. Un’antropologia della ferita infinita, 2021). Confrontandosi con classici del pensiero antico e contemporaneo (da Nietzsche a Lévinas), egli elabora un’antropologia della strutturale passività dell’uomo, ovvero della sua ferita infinita: dal momento che sentiamo che sentiamo siamo vulnerabili di fronte a quattro ferite: oltre a quelle della vita e della morte, pure di fronte alla natura e soprattutto agli altri. Ed è a partire dal gusto e dal godimento della vita, dalla sua positività, che si definisce per contrasto ogni sofferenza. Queste ferite che si manifestano come incontri o avvenimenti danno origine ad azioni (rendere più intensa la vita, fare compagnia, “fare mondo”, prepararci alla morte) le quali danno senso alla vita e permettono di aprirsi alla speranza.

Come già per Hannah Arendt, la capacità umana di promettere e di perdonare è una dimensione significativa di queste azioni con cui si cerca di rispondere alla provocazione della ferita infinita: “Qualcosa ci accade, e per questo promettiamo. Qualcosa ci accade, e per questo cerchiamo di dimenticare. Qualcosa ci accade nel profondo, e per questo esiste l’indimenticabile” (p. 49). La vita spirituale è prendersi cura dell’indimenticabile.

Se la vita dell’uomo è fondamentalmente risposta, quale posizione, quindi, è veramente umana? Per Esquirol quella del poeta. Poeta (da poiein, fare) è colui che “sa curvare l’azione sulla gravità della ferita infinita. È chi trae dalla ferita infinita la passione per creare più vita, più mondo e più senso. Poeta è chi nel solco della ferita e nel palmo della mano, mantiene e congiunge quanto più si può” (p. 87).

Si tratta, facendo memoria,  di mantenere e congiungere. Se attraverso questa ferita infinita l’uomo religioso può intravedere Dio che interpella l’uomo, Esquirol, che è un filosofo cristiano, si sofferma sul valore umano paradigmatico della dolcezza come modo di essere di Dio stesso. La dolcezza si oppone all’esaltazione della freddezza spassionata e cinica di fronte alle ferite dell’esistenza: la cosa più facile è giudicare; la più difficile, astenersi dal farlo.

Ispirandosi al francescanesimo, egli annota che “la migliore tecnica di mediazione è essere un uomo di pace” (p. 104). In sintesi: essere veramente umani non significa spingersi al di là dell’umano (l’utopia del transumanesimo), ma consapevoli della ferita che ci interpella, “rendere più intenso l’umano che è nell’umano, renderlo più profondo: è questo il valore più grande di tutti” (p. 7).

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