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Home » Cultura » LETTURE/ “L’opinione comune è una grande dittatura che vuole nasconderci ciò che siamo”

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  • Meeting di Rimini

LETTURE/ “L’opinione comune è una grande dittatura che vuole nasconderci ciò che siamo”

Int. Daniele Mencarelli
Pubblicato 22 Agosto 2022
Un ingresso del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau (LaPresse)

Un ingresso del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau (LaPresse)

Davanti alla morte nei campi di sterminio alcuni scrittori hanno testimoniato l'irriducibilità del cuore dell'uomo. Se ne parla al Meeting

“Dubitare e credere sono la stessa cosa, Pilato. Solo l’indifferenza è atea”, dice la moglie del prefetto romano della Giudea ne Il vangelo secondo Pilato, una delle opere più conosciute del drammaturgo belga Éric-Emmanuel Schmitt che sarà ospite del Meeting di Rimini in un incontro insieme al nostro scrittore e autore teatrale Daniele Mencarelli, oggi 22 agosto alle ore 19. Il titolo, affascinante, è “L’irriducibilità dell’uomo” e si partirà dall’opera di alcuni grandi della letteratura del 900, Etty Hillesum, Osip Ėmil’evič Mandel’štam,


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Primo Levi, Edith Bruck, tutti protagonisti della terribile esperienza della Shoah, per approdare alle loro opere. Il tema è l’irriducibilità dell’uomo anche quando si trova a vivere nelle condizioni più disperate. Ne abbiamo parlato con Mencarelli.

L’incontro a cui prendi parte prende a esempio personaggi che, di fronte alle condizioni umane più devastanti e alla morte, hanno dato testimonianza che il desiderio dell’uomo di fronte a questo coinvolgimento può sorprendentemente non solo sopravvivere, ma emergere indistruttibile. Trovi che ci sia una qualche consonanza con il titolo stesso del Meeting, “Una passione per l’uomo”? In fondo senza passione per la nostra umanità, questa irriducibilità rischia di scomparire, è così?


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Assolutamente sì. L’uomo messo di fronte al sentimento della finitudine reagisce in modo inaspettato, quasi innaturale, gli si rivela un orizzonte che sente non bastargli e compie qualcosa di incredibile anche nei luoghi più disastrati, i luoghi della morte. Trova il vertice opposto, quello dell’umanità. Il 900 è stato un secolo spero ineguagliabile perché negli abissi del dolore sono corrisposti momenti di illuminazione suprema. Al contrario della finitudine, l’uomo trova l’infinitudine.

Questo sentimento di irriducibilità emerge molto bene nella tua opera teatrale, Agnello di Dio, dove il protagonista è disposto a tutto pur di non rinunciare al suo desiderio di infinitudine. Ma come si fa nella banalità delle nostre esistenze quotidiane a mantenere vivo questo desiderio?


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Questa è una domanda impegnativa, molto bella. È il paradosso dei paradossi quando l’uomo nel momento in cui viene stanato dal destino torna a ragionare sulla propria finitudine, su come questo orizzonte non sia fatto per lui e come non lo senta adatto al suo desiderio. Il poeta e scrittore Camillo Sbarbaro chiamava consuetudine quel superamento grigio che non fa più percepire questi due duellanti della vita che sono Dio e il caos. L’enorme domanda a livello psicologico che viene definita nevrotizzazione nasconde questa profonda inquietudine che l’uomo contemporaneo non sa più decifrare. Nei miei libri non ho mai negato l’esistenza della malattia mentale, uno spazio umano ed esistenziale in cui porsi sempre domande. C’è un luogo dove quelle domande diventano divoratrici e in qualche modo fanno ammalare la persona. Ma non è possibile pensare a un uomo che non si faccia mai domande, è da malati pensare il contrario.

A questo proposito, depressione e malattia mentale sono sempre più in crescita: secondo molti studi nel giro di pochi anni diventeranno la patologia più diffusa al mondo. Pensi che la mancata risposta alle domande dell’uomo da parte di questa società del nichilismo e della banalizzazione innesti questo meccanismo?

Ci sono dei grandi equivoci oggi. Da una parte l’errore di confondere le domande di natura esistenziale come sintomo di malattia, dall’altra questa rincorsa enorme nell’oggettivare un desiderio di felicità che non è rinchiudibile dentro un progetto, qualunque esso sia. La felicità è essere partecipi della propria natura con gli altri e poi vivere percependo la caducità che abbiamo, non allontanarla. Sentire la fine è da persone che accolgono la propria natura.

Noi oggi non viviamo esperienze terribili come la Shoah, però abbiamo una pandemia, una guerra devastante dietro casa e tante altre tragedie continue. La gente sembra che voglia a tutti i costi trovare un nemico esterno da sé, da incolpare di tutto. Che ne pensi?

Il problema della progressiva perdita del rispetto dell’esistenza è devastante. Viviamo nell’epoca del grande nemico, qualcuno che lavora contro di noi rispetto al nostro bene, dimenticando il messaggio evangelico, “il nemico è quello che ti corre dentro e devi lavorare con lui.”

Tornando al tema dell’incontro, il lavoro dello scrittore, del poeta qual è, allora?

Il grande tema che dovrebbero affrontare gli scrittori e i poeti, che hanno il dono di sentire in anticipo quello che gli altri non sentono, è percepire questa irriducibilità, educare a guardarci negli occhi e dire non è possibile non avere questo sentimento. L’autore non deve farsi dettare i temi, deve trovarli lui. Spesso oggi gli autori sono schiacciati su temi di moda, l’opinione collettiva è diventata una grande dittatura. Ultimamente ho lavorato sul tema degli incidenti stradali, la prima causa di morte al mondo dai 10 ai 19 anni eppure nessuno parla dell’emergenza che è. Quello che dovrebbe fare l’autore è mettere certi temi davanti agli occhi della gente, indirizzare lo sguardo.

(Paolo Vites) 

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