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Home » Cultura » Letture e Recensioni » MONTAGNA/ Gary Hemming, il mestiere di vivere è più difficile degli strapiombi

  • Letture e Recensioni
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MONTAGNA/ Gary Hemming, il mestiere di vivere è più difficile degli strapiombi

Alberto Trevissoi
Pubblicato 10 Giugno 2023
Gary Hemming (1934-1969) n una foto di Tom Frost, tratta dal volume citato di M. Tenderini

Gary Hemming (1934-1969) n una foto di Tom Frost, tratta dal volume citato di M. Tenderini

Un ritratto da vicino e da dentro di uno dei più grandi scalatori della storia, Gary Hemming: Enrico Camanni, "Se non dovessi tornare"

C’era un ragazzo che amava i Beatles, girava il mondo e veniva dagli Stati Uniti d’America… si chiamava Gary Hemming. Trent’anni dopo l’ottima biografia che gli dedicò Mirella Tenderini (Gary Hemming, una storia degli anni 60), uno dei più grandi e misconosciuti alpinisti della storia torna protagonista di un libro in Italia, Se non dovessi tornare di Enrico Camanni (Mondadori 2023). Lo scrittore torinese ne fa un ritratto da vicino e da dentro, raccontando con la consueta maestria non solo le imprese in montagna e la vita avventurosa, ma anche restituendoci i dialoghi e i pensieri dei momenti più importanti della sua breve vita. Quasi un romanzo ma niente di inventato, tutto ricostruito da fonti documentate, come i suoi diari e le testimonianze di chi gli è stato più vicino.


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Alto, biondo era e bello e di gentile aspetto, il californiano Gary. Gentile e accattivante con tutti, generoso e altruista, sapeva farsi amare dalle molte donne che ha conosciuto, soprattutto in Francia, e da tanti bambini (tra cui un figlio), che istintivamente ne facevano il loro compagno di giochi preferito. A meno che qualcosa o qualcuno non lo irritasse o bevesse o si fosse fatto di troppo Lsd, perché allora diventava intrattabile e insultava tutti, anche gli amici. Dopo giovanili grandi scalate in America, venne in Europa, girovagando soprattutto in Francia, dove realizzò nel gruppo del Bianco prime ascensioni che hanno fatto la storia, come la diretta americana al Dru (con Royal Robbins) nel ’62 e la via sullo scudo verticale dell’Aiguille du Fou nel ’63 (con John Harlin, Tom Frost e Stewart Fulton).


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Ma l’impresa che lo rese di colpo famoso anche tra il grande pubblico, e non solo nella cerchia alpinistica, fu nel ’66 il salvataggio di due tedeschi bloccati dalla tempesta su una stretta cornice in mezzo agli strapiombi del Dru. Insieme a René Desmaison e altri sei alpinisti “ribelli” salvò i due scavalcando i pesanti e macchinosi soccorsi ufficiali dei militari e delle guide di Chamonix, che poi la fecero pagare in modo meschino a Desmaison espellendolo dalla compagnia delle guide.

Frastornato dal successo, incostante, frustrato da un libro che non riusciva a scrivere (già pagato in anticipo da un editore francese), la sua carriera alpinistica finì lì. Poteva spostare avanti i confini dell’arrampicata di decenni, scrive Camanni, ma non era motivato. Più volte arrivò alla base della nord delle Grandes Jorasses per tentare la prima solitaria dello sperone Walker, rinunciando sempre. Sul ghiacciaio di ritorno dal suo ultimo tentativo, nel giugno ’68, incontrò un giovane Alessandro Gogna che saliva e che avrebbe realizzato lui la prima solitaria. Si scambiarono un saluto da lontano.


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Partecipò a Parigi al maggio ’68, ma più da spettatore che realmente coinvolto, anche se il movimento incarnava in teoria tutti i suoi ideali. La sua filosofia ecologica e libertaria della scalata prevedeva regole di “purezza” alpinistica persino più radicali di quelle di Paul Preuss. Diceva che il suo alpinista preferito era Walter Bonatti (che però aveva ben altra determinazione e fermezza di carattere).

Tornato in America, la notte del 6 agosto 1969 dopo una festa finita male si sparò un colpo di pistola sulle rive del lago Jenny, ai piedi delle Montagne Rocciose. Aveva 34 anni. Aveva fatto e pensato cose bellissime, provato mille mestieri per campare, da taglialegna ad attore televisivo, ma non riuscì a imparare il mestiere di vivere.

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