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Home » Esteri » GUERRA NEL MAR ROSSO/ Usa, Iran, Cina: gli Houthi e le tre incognite che tutti temono

  • Esteri
  • Medio Oriente

GUERRA NEL MAR ROSSO/ Usa, Iran, Cina: gli Houthi e le tre incognite che tutti temono

Albert Bozo
Pubblicato 7 Gennaio 2024
Proteste degli Houthi a Sana'a contro la missione  USA nel Mar Rosso (Ansa)

Proteste degli Houthi a Sana'a contro la missione USA nel Mar Rosso (Ansa)

Nel Mar Rosso tre variabili possono decidere l'innesco di una catena di eventi e lo scatenarsi di una guerra estesa. Ecco come

Sul Mar Rosso meridionale, divenuto di fatto il terzo fronte degli scontri mediorientali (con Gaza, dove continuano i bombardamenti, e sud Libano, da dove ieri mattina sono partite decine di razzi Hezbollah contro Israele), si affollano le incognite su una possibile escalation. Un’equazione a tre fattori: 1) se gli Houthi yemeniti disattendessero l’ultimatum della coalizione internazionale lanciando nuovi ordigni contro i convogli navali commerciali e militari in transito, ad est o a nord dello Stretto di Bab el Mandeb, la “Porta delle lacrime”; 2) se la stessa coalizione decidesse di reagire, colpendo basi di lancio, strutture militari o altri insediamenti Houthi costieri (come già accadde nell’ottobre del 2016, quando gli Usa lanciarono missili da crociera su tre postazioni radar Houthi nello Yemen, in risposta al fallito attacco contro il cacciatorpediniere americano USS Mason); 3) se la fregata iraniana Alborz (spedita davanti alle coste yemenite a, come si dice, far sventolare la bandiera in una sorta di paravento protettivo per gli affiliati sciiti Houthi) decidesse di parare quei colpi…


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Se questa tragica ma possibile catena s’innescasse, gli scenari diventerebbero quelli di una guerra estesa, ben oltre il focus del barbaro attacco di Hamas e della conseguente dura reazione israeliana a Gaza. La difesa della Palestina e l’odio contro Israele resterebbero sullo sfondo di un confronto senza quartiere tra le teocrazie islamiste e le democrazie occidentali, per il quale si sarebbe chiamati a pagare tutti, in un’escalation inflazionistica che metterebbe in pericolo, oltre alla pace, anche commerci e stili di vita.


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Non è un’ipotesi azzardata, visto che l’operazione Prosperity Guardian lanciata dagli USA non sembra aver incassato particolari effetti deterrenti, con gli Stati alleati nella coalizione impegnati piuttosto ad operare prudenti distinguo.

Intanto, l’ISPI informa che stando all’International Chamber of shipping già il 20% delle navi portacontainer del mondo evita il Mar Rosso e naviga invece attorno al Capo di Buona Speranza sulla punta meridionale dell’Africa. “La crisi nel Mar Rosso – sostiene ISPI – è tanto più preoccupante in quanto, attraverso questa arteria marittima, transita circa il 15% del commercio marittimo globale, compreso l’8% del commercio globale di cereali, il 12% del petrolio commercializzato via mare e l’8% del gas naturale liquefatto. Lo Stretto di Bab el Mandeb che conduce a nord verso il Mar Rosso e dal Canale di Suez al Mediterraneo è uno dei più cruciali choke points delle rotte internazionali insieme agli stretti di Hormuz e Malacca. Si tratta di quei colli di bottiglia il cui blocco (a causa di guerre o crisi sul fronte della sicurezza) può avere gravi ripercussioni sulle catene di approvvigionamento globali, come dimostrato nel 2021 dall’incagliamento della Ever Given nel canale di Suez”.


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Spettatori interessati di questo scenario restano molti Stati arabi, tradizionalmente abituati a una doppia, tripla postura (a volte alleati con gli USA, ma contemporaneamente sodali con altri mondi islamici), ma soprattutto Russia (con lo zar al fianco di uno dei suoi fornitori di armamenti, l’Iran, e più che soddisfatto di assistere al logoramento militare ed economico degli USA su fronti diversi da quello ucraino), e Cina. La quale Cina nel 2017 ha aperto a Gibuti la sua prima base militare estera vicina al porto di Duraleh (costruito dagli stessi cinesi, così come l’unica ferrovia del Paese, quella tra Gibuti ed Addis Abeba), investendo miliardi di dollari. Ma a Gibuti anche gli Usa mantengono una forza di 4.500 soldati a Campo Lemonnier, comando di tutte le loro forze armate per l’Africa. Poi c’è la Francia, che oggi conta circa 5mila uomini nella sua più grande base militare d’oltremare, che a volte ospita anche militari di Spagna e Germania. Ma a Gibuti ci sono anche militari giapponesi in una base nipponica, e sembra che tra breve arriveranno anche presenze militari di India, Arabia Saudita, Russia e Turchia. Per finire, Gibuti ospita anche il nostro tricolore: dal 2013 l’Italia ha aperto una base militare (l’Amedeo Guillet, una BMIS, base militare italiana di supporto), con una missione dei carabinieri.

Perché proprio Gibuti? si dirà, visto che quell’inospitale lembo di deserto e terre più basse del livello del mare è grande appena due volte la Lombardia, con temperature tra i 40 e i 55 gradi e circa un milione di abitanti. Il fatto è che Gibuti è di fatto un hub militare strategico, incastrato nella punta dell’Africa, affacciato su quei trenta chilometri che dividono il Golfo di Aden dal Mar Rosso. Proprio da Gibuti, in questi giorni, in coordinamento con il CENTCOM americano nel Bahrain (il comando delle CMF, le forze marittime multinazionali nel quadrante) si pianificano probabilmente le operazioni della coalizione anti Houthi.

Ma anche altre forze armate lanciano da Gibuti i loro scandagli d’intelligence: pochi giorni fa ItaMilRadar ha rintracciato un Beech 350ER, appartenente alla CAE Aviation, che si stava dirigendo verso nord, presumibilmente per svolgere una missione di sorveglianza nella zona. La CAE Aviation è una compagnia aerea con sede in Lussemburgo che offre servizi tra cui sorveglianza aerea e ricognizione a varie agenzie governative internazionali. Una sorta di anonimo contractor dei cieli. Ma sapere a chi fornirà i dati raccolti resta una delle tante variabili di questa complicatissima equazione mediorientale.

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