A Mosca una mostra (con spettacolo teatrale) dedicata al movimento antinazista La Rosa Bianca è stata un risveglio inaspettato
Da anni le statistiche ci dicono che “i senza religione” (soprattutto fra i giovani) sono sempre più numerosi in Svizzera. Penso che il dato sia confermato anche in Europa, a giudicare soprattutto dai media. Viviamo in un’epoca di “morale provvisoria”, si cercano soluzioni temporanee per sopravvivere in un clima di disorientamento, di incertezza e di paura sempre più angosciante.
In queste condizioni sembra addirittura irrispettoso verso chi soffre i problemi della quotidianità porre l’attenzione sui grandi temi dell’esistenza: la felicità, il senso della vita, la verità, la libertà, l’educazione, ecc. Ci sentiamo costretti a reagire moltiplicando le prestazioni, per colmare i gap, eliminare le imperfezioni, i limiti. Pensare ad Altro sembra superfluo e fuorviante, come un brutto pensiero che tuttavia non riusciamo a reprimere. Così crescono i motivi dell’angoscia: quello dovuto alla convinzione di non essere all’altezza delle prestazioni necessarie e quello dovuto a quel pensiero che non riesce ad accettare che non vi sia un’altra speranza per vivere. E allora come dialogare in questo mondo? Come concepire un’interazione culturale?
Sperare significa guardare lontano, tendere a ciò che non è ancora e che avvertiamo come un’esigenza inestirpabile del vivere. Per sperare è necessario incontrare qualcuno che voglia bene alla mia speranza (magari nascosta o soffocata), prima che al mio benessere o alla mia riuscita. Per sperare occorre una vicinanza basata su questa percezione esistenziale prima che su una qualche comunanza di idee, ovviamente senza escludere nulla. Dare spazio a questa vicinanza è un’opera culturale a cui siamo chiamati dalla nostra esperienza umana di appartenenza comune al mondo, per risvegliare in noi la passione per il possibile, per ciò che non è già previsto.
Un’opera culturale ci chiede il coraggio di pensare per non fuggire dal mondo e per non rimanerne prigionieri, ma per “consentirci l’accesso a ciò che è completamente altro”, come scrive il filosofo Byung Chul Han, e che corrisponde al desiderio più profondo del nostro cuore.
Di questa apertura san Paolo ci dà un grande esempio nel discorso all’Areopago di Atene. Riferendosi alla statua dedicata al Dio ignoto osservata in città, dice agli ateniesi: “Ciò che voi adorate senza conoscere, io ve lo annuncio” (At 17,23). Paolo assume il loro desiderio religioso. Dialoga con uomini che hanno una cultura lontana dalla sua (tanto è vero che fu anche deriso per le sue parole) e che si ritengono ben saldi nelle loro convinzioni. Resta in loro una domanda, una speranza, che Paolo riconosce come una profonda esigenza umana che lui vuole condividere, per la fede che lo ha rigenerato.
Penso che, soprattutto oggi, l’azione culturale richieda il coraggio di un vero ascolto dell’altro e di una vera comunicazione di sé per dar voce alla speranza che è più forte di ogni condizionamento.
Recentemente sono venuto a conoscenza di un’iniziativa per molti aspetti sorprendente che ci aiuta a cogliere il valore mobilitante di una cultura che spera e che pensa.
Nel mese di febbraio, il Centro culturale Biblioteca dello Spirito di Mosca ha ospitato la mostra sulla Rosa Bianca organizzata qualche anno fa dal Meeting per l’amicizia fra i popoli di Rimini.
La mostra racconta la nota storia di alcuni studenti di Monaco di Baviera che tra il 1942 e il 1943 distribuirono volantini firmati “Rosa Bianca” per sostenere la resistenza contro Hitler e chiedere libertà per il popolo tedesco. Per questo furono arrestati e giustiziati. Qualcuno a Mosca si era interrogato sull’opportunità di diffondere un messaggio che offriva spunti di riflessione sulla resistenza al nazismo con evidenti parallelismi con l’attuale situazione politica russa. L’esito non era scontato; tuttavia, soprattutto i giovani partecipano con entusiasmo alle visite guidate che diventano occasione di dialogo e di confronto.
Addirittura, un piccolo gruppo teatrale studentesco decide di mettere in scena uno spettacolo sulla Rosa Bianca. In pochi ci credono, poi la sorpresa: la sala è strapiena; il pubblico si sente coinvolto nella riflessione sul tema della vita, della verità, della guerra, della libertà, della responsabilità.
Di fronte a questo risveglio per certi aspetti inaspettato, non possiamo non chiederci da dove nasce questo impeto, questo coraggio di condividere, di confrontarsi, di giudicare. Il coraggio che faceva dire ad Aleksej Naval’nyj: “Io non ho paura. Non abbiatene neanche voi”. Un messaggio che in Russia si sta diffondendo e che siamo invitati a riscoprire “per alzare gli occhi dal tavolo” e “non abbassarli mai”: sono parole di Naval’nyj riportate nel libro che raccoglie un’antologia di suoi scritti curati da Adriano Dell’Asta e Marta Carletti Dell’Asta (A. Naval’nyj, Io non ho paura. Non abbiatene neanche voi, Scholè, 2024).
La risposta a questa domanda la troviamo nella inesausta sete di giustizia e di verità, libera da riduzioni ideologiche, che ha animato lo stesso Naval’nyj. “Non si può disperare”. La vita ce lo impone. “La scelta morale oggi è più importante della scelta ideologica o politica”. Essa implica un rischio ed è frutto del riconoscimento comune di un altrove che incide su ogni nostra scelta più delle paure, delle opportunità, delle previsioni e delle strategie (anche culturali) a cui normalmente ci affidiamo.
La mostra e lo spettacolo teatrale testimoniano come, anche in un contesto di repressione, sia possibile coltivare il coraggio e rispondere all’appello della vita. Quei giovani, attraverso l’arte e la cultura, hanno trovato un modo per esprimere la propria voce e per affermare la propria libertà, in un atto di responsabilità silenziosa ma potente. Lo hanno fatto non aprendo un dibattito sulle idee, ma creando, forse inaspettatamente, un vero spazio di speranza. Ed è significativo che il card. José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, intervenendo all’incontro mondiale dei centri culturali cattolici nell’ambito del Giubileo, abbia definito i centri culturali cattolici “artigiani della speranza”, con il compito di radicare la speranza nella cultura.
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