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Home » Lavoro » NUOVI LAVORI/ Gig economy, luci e ombre di una realtà sempre più “stabile”

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NUOVI LAVORI/ Gig economy, luci e ombre di una realtà sempre più “stabile”

Franco Ferrazza
Pubblicato 9 Aprile 2025
smartphone

Pixabay

La gig economy è ormai parte stabile, anche se mutevole, del mondo del lavoro nel nostro Paese. E non solo per i giovani

“Gig” è una parola che arriva dal jazz. Un “gig” era una serata, una chiamata veloce, un’esibizione una tantum. Nessuna continuità, nessuna garanzia. Solo il tempo di suonare e via. Oggi lo stesso concetto si applica a un intero pezzo del mondo del lavoro: incarichi rapidi, su richiesta, mediati da un’app. Lavoretti, commissioni, consegne, consulenze spot. Tutto temporaneo, tutto fluido. Lavori senza ufficio, senza orario fisso. La promessa è flessibilità, in alcuni casi, è precarietà.


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Secondo i dati Inapp 2024, in Italia si stima che almeno 600mila persone lavorino più o meno stabilmente nella gig economy. È un mondo che si muove sotto la superficie del lavoro formale. Una zona, per alcuni grigia per altri diversa, in crescita, che cambia in fretta e che sfugge alle vecchie categorie. Non è solo lavoro precario. È una nuova infrastruttura di servizi che si regge su un esercito di lavoratori spesso invisibili, ma sempre connessi. È una delle cartine tornasole più chiare di come sta cambiando il lavoro: meno lineare, meno tutelato, più atomizzato.


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Chi lavora nella gig economy?

Non esiste il “tipo da gig economy”. È uno di quei rari ambiti dove coesistono esperienze diverse, spesso agli antipodi. C’è chi ci entra perché non ha scelta. È l’unico modo per mettere insieme un reddito. Nessuna alternativa, nessun paracadute. Ma ci sono anche quelli che la scelgono. Perché lascia libertà. Perché puoi decidere quando lavorare, senza capi né uffici. Perché puoi “tenere in piedi” un progetto personale – scrivere un libro, lanciare un podcast, costruire un brand – grazie a qualche corsa in bici o una manciata di ore al pc.


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Ci sono studenti, che cercano un lavoretto flessibile e poco impegnativo. Artisti e freelance, che usano queste entrate come ponte verso qualcosa di più grande. Persone con piccole attività imprenditoriali che al momento non garantiscono abbastanza per vivere. E ci sono lavoratori esperti, che portano nel gig una professionalità vera: artigiani, elettricisti, tecnici, riparatori. Tutti in cerca di spazi di autonomia in un mercato del lavoro che offre poco, o che è troppo lento a cambiare.

Il punto è che non c’è un modello solo: ci sono molte traiettorie, molte motivazioni. Ma spesso c’è una cosa in comune: si entra nella gig economy perché il lavoro “tradizionale” ha smesso di funzionare.

Non è tutto uguale: il mondo gig è molto eterogeneo

Parlare di “gig economy” al singolare rischia di confondere più che chiarire. Consegnare cibo in bicicletta non è lo stesso mestiere di chi porta persone in auto con Uber. E nemmeno lontanamente paragonabile a chi scrive codice da remoto, monta un sito web, fa traduzioni tecniche, o sistema impianti elettrici su chiamata. In mezzo ci sta un ventaglio di attività molto ampio: fisiche, digitali, artigianali, creative, più o meno specializzate, più o meno faticose, più o meno pagate. Alcune richiedono formazione e competenze solide, altre si improvvisano. C’è chi lavora con una propria identità professionale e chi si sente ingranaggio in una catena automatica. Spesso le due cose convivono.

Anche il lato contrattuale è tutto fuorché lineare. In Italia si lavora spesso con partita Iva, prestazioni occasionali, collaborazioni atipiche, oppure fuori da qualsiasi cornice. Il risultato è che chi lavora su piattaforma è formalmente “autonomo”, ma nella pratica è subordinato: orari decisi dall’algoritmo, valutazioni automatiche, impossibilità di negoziare. Nessuna tredicesima, nessun diritto alla malattia, niente ferie. È il lavoro che si adatta a chi lo richiede, ma senza che chi lo fa abbia davvero voce in capitolo.

Piattaforme e start-up: la cornice in cui si muove tutto questo

Le piattaforme digitali sono l’infrastruttura invisibile su cui si regge tutto. Non sono semplici strumenti: determinano come funziona il lavoro. Quasi sempre nascono da start-up, con modelli pensati per scalare in fretta, raccogliere fondi, diventare “unicorni”. Per riuscirci, servono margini rapidi, flessibilità estrema e un esercito di lavoratori sempre pronti, poco costosi, adattabili. Alcune piattaforme decollano e cambiano il mercato, altre spariscono in pochi mesi. Chi lavora in questo spazio si ritrova dentro un ciclo continuo di sperimentazione: ogni commessa è anche un test, ogni cliente un algoritmo da soddisfare.

È una dinamica ambigua. Da un lato, queste piattaforme hanno abbassato le barriere d’accesso al lavoro, semplificato i processi, aperto opportunità a chi altrimenti resterebbe fuori. Dall’altro, hanno anche introdotto una logica iper-produttiva, dove conta solo la prestazione, il punteggio, il tempo di consegna. Il lavoro si svuota di relazione, di prospettiva, di identità. Il rischio è che alla lunga si trasformi in una somma di micro-task, senza contesto, senza crescita, senza futuro.

Un mondo in continua evoluzione

La gig economy non si ferma. Alcune piattaforme diventano punti di riferimento nel giro di poco tempo, altre non riescono nemmeno a partire. I lavoratori si adattano a nuovi strumenti, nuove regole, nuovi algoritmi. Chi resta fermo, si perde.

È un mondo fluido, per sua natura instabile. E proprio per questo difficile da regolamentare. La politica prova a inseguirlo, spesso in ritardo. Si parla di diritti minimi, di tutele base, di un quadro europeo più uniforme. Tutto necessario, ma non sufficiente.

L’impressione è che questo modo di lavorare non sparirà. Al contrario, si allargherà, si modificherà, risponderà a nuovi bisogni, a nuove crisi, a nuove tecnologie. Prenderà forme diverse. Alcune più tutelate, altre ancora più leggere, più provvisorie, più marginali.

E allora le domande restano lì, aperte: cosa vuol dire essere lavoratori in questo contesto? Cosa vuol dire essere liberi, quando il mercato detta tutto e i margini si restringono? E come si garantisce dignità a chi lavora, anche fuori dai modelli tradizionali?

Non ci sono risposte facili. Ma una cosa è chiara: la gig economy non è più una parentesi. È parte stabile, anche se mutevole, del paesaggio del lavoro. E ho l’impressione che ne parleremo ancora.

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