Giornalista e saggista, Paola Caridi si occupa da più di vent'anni di Medio Oriente e Nord Africa.
Ha co-fondato Lettera 22, associazione di giornalisti specializzata in politica estera, e ha lavorato come corrispondente dal Cairo dal 2001 al 2003, e da Gerusalemme per i successivi dieci anni. Il suo ultimo libro è Il Gelso di Gerusalemme (Feltrinelli Ed.), che sarà presentato venerdì 27 giugno a Bari in occasione del Lungomare di Libri, curato da Salone Internazionale del libro di Torino, Città di Bari e Regione Puglia.
Lei si occupa da più di 20 anni di Medio Oriente. Quali sono le maggiori difficoltà che incontra un giornalista nel coprire un conflitto complesso come quello di Gaza, sia in termini di accesso alle informazioni che di sicurezza personale?
In questi 20 mesi la questione di fondo è che, non solo non è stato concesso dalle autorità israeliane l’ingresso a Gaza, ma sono proprio queste ultime che decidono chi può entrare e chi non. Non è molto rilevante quello che può succedere a noi giornalisti occidentali, che ci occupiamo da decenni di quello che succede dentro Gaza. Il vero scandalo è che noi non abbiamo detto nulla sui nostri colleghi palestinesi – giornalisti, cameraman, fotografi, montatori, ingegneri del suono e tutti gli operatori dell’informazione – che sono stati uccisi dalle forze armate israeliane in questi venti mesi.
Questo mette in gioco la credibilità di tutti noi; il fatto di essere giornalisti palestinesi non vuol dire non essere credibili e che si possa essere uccisi impunemente. Loro vanno protetti e non l’abbiamo fatto, nonostante per decenni noi avessimo usato i loro servizi. Hanno scritto, hanno fotografo e hanno anche vinto i premi più importanti della fotografia. Finché noi giornalisti occidentali abbiamo firmato i nostri pezzi, la nostra credibilità non è mai stata messa in discussione. Quando invece loro si sono appropriati dei loro racconti, gli israeliani li hanno uccisi.
A suo parere, qual è il motivo per cui i giornalisti palestinesi non sono stati protetti dagli occidentali?
C’è un razzismo automatico di cui nemmeno ci rendiamo conto, come se noi detenessimo la verità o la deontologia per seguire i conflitti. Noi non siamo neutrali; quello che bisogna chiedere ai giornalisti è di essere onesti, ma non di essere obiettivi, perché nessuno di noi lo è. Dovremmo renderci conto del nostro razzismo, orientalismo, del nostro dividere le persone tra quelle che sono occidentali e quelle che non lo sono. Questo sarebbe un lavoro necessario, che ha anche a che fare con il racconto che noi abbiamo fatto di quello che è successo dal 7 ottobre 2023 (L’attacco di Hamas a Israele n.d.r.). Spesso ci concentriamo su quello che succederebbe a noi stessi, quando ci sono almeno 55.000 palestinesi uccisi a Gaza.
Sappiamo che la situazione umanitaria a Gaza è drammatica. Secondo la sua esperienza, quali sono gli aspetti più urgenti e preoccupanti riguardo alle condizioni di vita della popolazione civile?
Tutti. C’è fame e sete usate come arma di guerra, ma anche l’assoluta mancanza di ogni cosa, compresi i pannolini per bambini, gli anestetici, gli assorbenti per donne. Noi giornalisti abbiamo saputo, attraverso le notizie date dai nostri colleghi palestinesi, quanto sia grave la salute e l’igiene delle donne. C’è un bagno per centinaia di persone all’interno delle tendopoli. Tutto ciò a cui noi abbiamo accesso nella nostra quotidianità è completamente negato nella striscia di Gaza.
Come interpreta il ruolo del nostro Paese in questo scenario?
L’Italia non sta facendo nulla, come buona parte dei Paesi occidentali fatta eccezione della Spagna e dell’Irlanda. Per il resto, noi siamo nei fatti co-responsabili di quello che sta succedendo, e lo dico perché la Convenzione sul Genocidio firmata nel 1948 ci impone di prevenire il genocidio e di fermarlo. Noi non abbiamo fatto nessuna delle due cose, e il nostro è quindi un governo silente e complice. Questo genocidio è anche il nostro.
Nel suo ultimo libro, Il Gelso di Gerusalemme, racconta la storia della Palestina e del Mediterraneo attraverso gli alberi. Da dove nasce questa idea originale?
L’idea nasce dal gelso tagliato, posizionato nel cortile della casa in cui ho vissuto per dieci anni a Gerusalemme. Quello è stato l’episodio finale di un piccolo muro costruito nel corso degli anni, cioè l’idea che noi raccontiamo solamente la storia umana, dimenticandoci che l’umano è uno degli elementi del sistema e che è anche la parte che fa più danni al pianeta.

L’emergenza climatica è ora così evidente che non possiamo più nasconderla. Adesso che siamo travolti dalla rottura della Comunità Internazionale e soprattutto delle sue regole, dobbiamo renderci conti che bisogna fare una storia sistemica, che comprenda umano e non umano, ma anche indicare i paradigmi in cui dovremmo vivere da questo momento in poi.
Quale valore può avere la natura in un contesto lacerato come quello del conflitto israelo – palestinese?
Gli alberi hanno un valore reale in questa situazione. Noi li abbiamo usati spesso come simbolo, ma la vera novità sarebbe guardarli come un elemento reale. Bisognerebbe non usare gli alberi come abbellimento per le strade, ma vederli per ciò che sono: elementi di questo palcoscenico in cui anche noi siamo presenti. Dovremmo metterci ai margini della Terra in cui ci sono soprattutto oceani, mari, fiumi, alberi e tutto il non umano che è molto più importante di noi.
In una delle frasi più forti del libro scrive: “Troppo sangue. È tempo di imparare dagli alberi“. Cosa dovremmo imparare da loro?
Ci insegnano ad essere rete, uno dei fili di un tessuto, di essere uno dei pezzi di un corpo. L’organismo umano è infatti composto di tanti elementi e, senza uno di essi, non reggerebbe, morirebbe o sarebbe malato. Quando noi pensiamo al sistema in cui facciamo parte, dobbiamo pensarlo veramente in termini di corpo. Dobbiamo eliminare questo protagonismo che ha viziato tutta l’umanità.
