Viaggi spesso per lavoro? Ecco cosa dovresti sapere, c'è una legge che ti tutela
Nel 2024 la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza destinata a fare giurisprudenza: il tempo di viaggio sostenuto dai lavoratori per raggiungere il luogo della prestazione deve essere retribuito come orario di lavoro effettivo. Una pronuncia chiara che mette fine a una serie di ambiguità contrattuali e consuetudini aziendali poco trasparenti, soprattutto nei confronti di lavoratori impegnati in attività “fuori sede”.
La decisione, contenuta nella sentenza n. 16674/2024, nasce da un caso concreto. Alcuni tecnici di una società per azioni incaricati di effettuare interventi tecnici a domicilio, hanno chiesto al giudice il riconoscimento del tempo impiegato ogni giorno per spostarsi della sede aziendale alla prima destinazione di lavoro e, a fine giornata, rientrare in sede.
Un tempo che, secondo un accordo sindacale interno, sarebbe stato conteggiato solo se superiore ai 30 minuti totali (15 minuti per l’andata e 15 per il ritorno). Ma per la Suprema Corte quell’accordo è da considerarsi nullo.
Il principio: se sei sotto il controllo dell’azienda stai lavorando
Il ragionamento fatto dalla Cassazione si basa su un semplice principio: se il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro e si muove secondo le sue direttive sta effettivamente lavorando. Di conseguenza ogni minuti impiegato per spostarsi con un mezzo aziendale deve essere correttamente retribuito perché è considerato parte integrante dell’orario lavorativo.

La Corte ha precisato che qualsiasi clausola contrattuale o accordo aziendale che imponga franchigie temporali o soglie minime di viaggio non retribuito è nulla. Questo perché viola chiaramente la normativa europea e italiana in materia di orario di lavoro, in particolare il decreto legislativo 66/2003, che stabilisce che è tempo di lavoro ogni periodo in cui il dipendente è alle direttive del proprio datore di lavoro.
Una sentenza che non interessa solo tecnici e manutentori, beninteso. Tutti i lavoratori che svolgono attività fuori sede possono essere tutelati da questo punto di vista. Dagli operatori sanitari che prestano servizio domiciliare fino ai tecnici e agli installatori.
Uno degli aspetti più significativi della sentenza è il richiamo all’inviolabilità dei diritti sanciti dalla legge. Anche se il lavoratore ha firmato un accordo sindacale interno che stabilisce condizioni diverse, questo non può avere valore se peggiora la sua posizione rispetto alla normativa nazionale. Di fatto quindi la legge prevale su qualsiasi decisione interna all’azienda, anche se condivisa dalle parti.
Si tratta sicuramente di un precedente forte stabilito dalla Cassazione. Le aziende sono tenute a rivedere i proprio contratti interni per adeguarsi alla normativa e i lavoratori hanno il diritto di rivendicare quanto non percepito.
