Ciro Grillo processo, arringa choc di Bongiorno dopo la requisitoria del pm: "Per loro era una t*oia.Lui ieri piangeva, ricordate le lacrime della ragazza"
PROCESSO A CIRO GRILLO, PARLA L’AVVOCATO DELL’ACCUSATRICE
Nell’aula del tribunale di Tempio Pausania prendono la parola, dopo la requisitoria del PM, i legali di parte civile, a partire dall’avvocata Giulia Bongiorno, la cui arringa è stata durissima.
La legale, che assiste la presunta vittima dello stupro di gruppo, apre il suo intervento in maniera fortissima, con l’espressione volgare e offensiva usata dagli imputati per etichettare la ragazza: “Viene ripetutamente definita ‘troione’ non perché lo era all’inizio, ma perché lo diventa dopo con la vodka”.

Il riferimento è alla chat in cui i quattro imputati riferiscono il cambiamento della ragazza dopo il consumo di alcol. E ne sottolinea l’aggravante, spiegando che la ragazza viene definita in quel modo non perché lo fosse, ma perché, dopo aver bevuto alcol, secondo gli imputati, lo sarebbe diventata.
MIGLIAIA DI DOMANDE: “NELLA STORIA GIUDIZIARIA…”
Bongiorno rimarca la mentalità sessista dietro quelle parole, perché da quelle conversazioni emergerebbero il disprezzo e il disinteresse per l’autodeterminazione della donna, ma fa anche un richiamo alla durata dell’esame della sua cliente, durato 35 ore e caratterizzato da 1.675 domande: “Non so se nella storia giudiziaria esiste un’altra teste alla quale sono state rivolte tutte quelle domande”.
Oltre a difendere la credibilità della ragazza, evidenzia come il suo interrogatorio sia stato lunghissimo, senza contraddizioni e invenzioni, dimostrando coerenza nelle risposte, nonostante i momenti di commozione legati al trauma riportato. “Tutti ieri erano concentrati a vedere Ciro in lacrime. Anche la mia assistita, anche lei era in lacrime. Ricordate?”
C’è poi un passaggio strategico nell’arringa: Bongiorno evidenzia che la sua cliente non è stata denunciata dagli imputati per calunnia. Non manca poi una critica alla cultura patriarcale, in un discorso più ampio in cui denuncia come il processo rifletta una visione ancora diffusa di una società in cui il consenso della donna è ritenuto irrilevante.
