Papa Leone XIV, incontrando quanti operano nelle cura delle dipendenze, ha ricordato che rialzarsi è questione di vita o di morte
Ci sono tanti che si sono “rassegnati” a gestire chi cade nella dipendenza dalle droghe riempiendolo di metadone e lasciandolo ai margini della società: chi sbaglia deve arrangiarsi e non disturbare la gente perbene. Ci sono però ancora tanti che, tra mille difficoltà, continuano a dedicarsi a loro perché possano ricostruirsi una vita. Papa Leone XIV è con loro.
Il 26 giugno scorso le realtà del Paese che lavorano nel settore della prevenzione, della cura e del reinserimento sociale nel campo delle dipendenze patologiche sono state invitate a vivere un momento di grazia e di unità attorno a papa Leone XIV. L’incontro, svoltosi presso il cortile di San Damaso, è stato organizzato dal Dipartimento nazionale contro le droghe e le altre dipendenze, con a capo il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Alfredo Mantovano.
Dopo alcune testimonianze di giovani in trattamento e di genitori che hanno reso evidente l’impegno instancabile e pieno di speranza in una vita normale e gioiosa, Mantovano ha descritto le azioni e il lavoro del Governo: «Abbiamo scelto di lavorare insieme: comunità, enti del Terzo settore, società scientifiche, medici, operatori sanitari, servizi pubblici per le dipendenze, regioni, enti territoriali, governo nazionale, animati dalla consapevolezza che la tossicodipendenza non è una questione meramente sanitaria: è una sfida culturale e umana, il cui presupposto, non soltanto teorico, è capire bene che cosa vuol dire essere liberi».
Il Papa, dopo una preghiera, ha iniziato il suo discorso così: «Le droghe e le dipendenze sono una prigione invisibile che voi, in modi diversi, avete conosciuto e combattuto, ma siamo tutti chiamati alla libertà. […] Guardiamoci attorno, però. E leggiamo nei volti l’uno dell’altro una parola che mai tradisce: insieme. Il male si vince insieme. La gioia si trova insieme. L’ingiustizia si combatte insieme».
Si tratta di una lotta molto dura, in cui nessuno va abbandonato. Il combattimento è contro chi lucra sulla vita dei giovani: «Esistono enormi concentrazioni di interesse e ramificate organizzazioni criminali che gli Stati hanno il dovere di smantellare. È più facile combattere le loro vittime. Troppo spesso, in nome della sicurezza, si è fatta e si fa la guerra ai poveri, riempiendo le carceri di coloro che sono soltanto l’ultimo anello di una catena di morte».
Rivolgendosi ancora al mondo delle Comunità, ha detto: «Dio fa grandi cose con chi libera dal male». E poi ha concluso affermando che «la Chiesa e l’umanità hanno bisogno di voi. Rialzarsi è questione di vita o di morte. Insieme! Moltiplichiamo luoghi di guarigione, incontro ed educazione».
Le parole del Papa sono state un incoraggiamento per tutti noi. «Rialzarsi è una questione di vita o di morte», ha detto Leone XIV. Ricordo benissimo quando più di dieci anni fa accogliemmo una giovane ragazza che in una delle nostre Assemblee di Scuola di Comunità esordì con chiarezza: «Ogni giorno in Comunità la scelta è tra la vita e la morte». Oggi quella giovane donna è madre di tre figli.
L’esperienza della Comunità, laica o religiosa, ha una certezza: la vita quotidiana è il terreno per imparare a scindere e giudicare il bene dal male. Le discipline che compongono tale percorso, questione educativa, psicologia e aspetto medico farmacologico, ruotano attorno a questo giudizio. Se non lo fanno rischiano di divenire alleate del male che la vita drogastica porta con sé.
Nel percorso comunitario le persone possono ritrovare dignità e valore per tutta la società. Mi permetto di ribadire con forza la richiesta di un urgente abbattimento della burocrazia che regola il nostro settore. Il rischio è quello di cadere in nuove forme di “riduzione del danno” che non guardano alla dignità dei singoli, ma rendono la dipendenza un problema cronico; che moltiplicano a macchia d’olio (anche al mondo dei minorenni) il pensiero che nella vita “posso fare ciò che voglio”, fino a cadere nella violenza documentata ogni giorno dai media locali e nazionali.
Concordo pienamente con Don Antonio Mazzi, che in una recente intervista al Corriere della Sera ha detto: «I miei posti in Comunità rimangono liberi perché qua si inventano ogni giorno una nuova regola, i governanti, di volta in volta, riescono nell’impresa di appesantire una burocrazia già pesantissima di suo, e allora creano regole che valgono più delle persone, ma che restringono le porte delle comunità quando invece noi dobbiamo allargarle, abbiamo il dovere, l’obbligo di allargarle, c’è la necessità, stante le richieste, di allargarle».
La strada giusta, quindi, è quella di rendere gli accessi alle Comunità liberi su tutto il territorio nazionale. Di fatto le Comunità terapeutiche sono gli unici servizi sanitari su cui gravano sempre più barriere normative e politiche. Ma sono anche gli unici presidi utili ad accogliere persone che potrebbero cambiar vita grazie a un incontro vivo e a un’esperienza che, seppure limitata, ha nei tanti anni dimostrato amore verso le persone e dedizione totale. È quanto mai necessario immaginare una vera riforma dei servizi pubblici che gestiscono gli ingressi verso le realtà del Terzo settore.
Confermando che, anche da parte delle realtà comunitarie, vi è la piena disponibilità a correggersi, dentro la condizione imprescindibile che si tratta di guardare le persone accolte non come a “spettatori..ma come protagonisti”, proprio come ribadito dal Santo Padre. Non farlo significa inevitabilmente rendere più difficoltoso, o addirittura improbabile, il richiamo del Papa a «moltiplicare i luoghi di guarigione, di incontro e di educazione». Perché «rialzarsi è una questione di vita o di morte»!
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