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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Giovenale, la satira non umilia nessuno ma aiuta il potere a correggersi

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LETTURE/ Giovenale, la satira non umilia nessuno ma aiuta il potere a correggersi

Giulia Regoliosi
Pubblicato 18 Luglio 2025
Mosaico del I secolo d.C. raffigurante le due maschere, tragica e comica, del teatro latino  (foto da Wikipedia)

Mosaico del I secolo d.C. raffigurante le due maschere, tragica e comica, del teatro latino (foto da Wikipedia)

La satira ha una origine latina, anche se la critica del potere risale ai greci. Giovenale potrebbe essere ancora motivo di ispirazione p

Uno degli aspetti della comunicazione sociale più discusso riguarda la satira. La questione ha avuto un picco d’interesse al tempo (giusto un decennio fa, era il 2015) dell’assalto terroristico al settimanale francese Charlie Hebdo, ma il continuo incrementarsi dei social ha allargato le possibilità di interventi satirici, parole, immagini, video.


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Qualche giorno fa su Facebook un utente ha postato per intero la prima satira del poeta latino Giovenale, in originale e traduzione, quasi una sorta di monito sul perché e sul come del genere stesso.

“La satira è tutta nostra” afferma Quintiliano, retore di poco maggiore di Giovenale, rivendicando l’originalità latina del genere. Ma un secolo prima Orazio aveva affermato la derivazione latina dalla libera commedia antica ateniese, che metteva in scena situazioni e personaggi contemporanei.


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E già il dichiarare questa derivazione, in sé piuttosto discutibile a fronte di altri possibili modelli greci come la poesia giambica, esprimeva una presa di posizione sullo scopo della satira: i poeti comici greci, così come i tragici, avevano il compito di indicare al pubblico, presente per intero in teatro durante le feste di Dioniso, un giudizio sulla situazione in cui si trovava la città e sugli uomini che intendevano porsi a capo o fare opinione.

La comicità, anche feroce, nasceva da questo compito e questa responsabilità educativa. La società romana non aveva simili momenti collettivi e i poeti che raccolgono l’eredità greca si trovano a dare di loro iniziativa un giudizio, il primo, Lucilio, in un periodo della repubblica diviso fra mos maiorum e fermenti di novità, il secondo, appunto Orazio, nella nuova realtà augustea.


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Ed è Orazio, nella stessa satira in cui richiama l’origine del genere, a presentarcene scopo e metodo. “Se dirò qualcosa troppo liberamente, se magari troppo scherzosamente, me lo devi permettere e insieme scusarmi” dice ad un interlocutore, e spiega che segue l’esempio di suo padre, il modesto liberto che lo ha educato: “L’ottimo padre mi ha abituato  a questo, bollando ogni vizio con degli esempi perché lo evitassi. Quando mi esortava a vivere in modo parco, frugale e contento di ciò che lui stesso mi aveva preparato, diceva ‘Non vedi come vive male il figlio di Albio, e come è impoverito Baio?’”.

Il padre sa di non essere all’altezza di dare spiegazioni colte: “Un saggio ti spiegherà le cause perché qualcosa sia da evitare o scegliere”, ma più semplicemente intende aiutarlo a serbare le tradizioni, e a non sprecare la vita e la buona opinione di sé.

Il metodo educativo è quindi la proposta di esempi, e questo metodo il poeta intende seguire nelle sue satire: ma è ben conscio di non essere lui stesso privo di difetti ancora da correggere, a cui dedica un esame di coscienza alla sera: “Questo è più corretto; facendo questo vivrò meglio; così mi comporterò bene con gli amici; questo il tale non l’ha fatto bene: forse senza accorgermi potrei fare un giorno qualcosa di simile?”.

Perciò la sua critica non ha il rigorismo morale né la presunzione superiore di chi contempla il male altrui solo per farne oggetto di sarcasmo, ma parte da un’autocoscienza ed è educativa anzitutto per se stesso.

Con Giovenale, da cui siamo partiti, ci troviamo in un’ambientazione particolare: il poeta ha vissuto nella giovinezza l’epoca difficile e paurosa dell’imperatore Domiziano, che si faceva definire “padrone e Dio”, ma quando scrive si trova nell’età di imperatori illuminati, per cui alla critica del passato non può corrispondere una visione globalmente negativa del presente. Eppure il poeta è pervaso da un furore per l’immoralità dilagante, che tutto travolge: “se la natura lo nega, sarà l’indignazione a comporre i versi”.

Difficile che qualcosa si salvi da questa indignazione, che non è rivolta, o forse non è il tempo per poterlo fare, contro singoli, ma contro categorie, in particolare le donne a cui è dedicata l’intera satira VI. Nella cupa visione di una società  in sfacelo, non c’è posto per il bene: “l’onestà è lodata ma soffre il freddo”.

È singolare che un autore in genere poco noto ai più ci abbia lasciato frasi, come quella appena citata, che sono entrate quasi inconsciamente nelle conoscenze comuni. Così è ad esempio l’attacco al popolo che non ha nessun interesse né ideale, se non ottenere dal potere “panem et circenses”, distribuzione di cibo e giochi gladiatori; oppure il rimprovero ai genitori che si permettono sconcezze senza tener conto di violare occhi e cuore dei figli: “il massimo rispetto è dovuto al bambino”; o l’amara constatazione che nessun controllo è possibile: “chi custodirà gli stessi custodi?”.

Ma la citazione più famosa, divenuta anche il motto o il nome di molte polisportive, è anche la più fraintesa: in una satira l’autore cita un lungo elenco di preghiere in cui vengono fatte agli dèi richieste di ricchezze e potere, mentre l’unica preghiera possibile è “ut sit mens sana in corpore sano”: una preghiera quindi, non un motto o un impegno: nello sfacelo generale la sanità è un dono da chiedere agli dèi.

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