Gozzi (Federacciai): dazi USA e svalutazione dollaro pericolosi, ma l’Europa sta distruggendo se stessa con le sue politiche industriali. Deve svegliarsi
I dazi USA e la svalutazione del dollaro preoccupano l’economia europea e italiana, ma la vicenda delle tariffe americane deve dare la sveglia all’Europa. Primo, perché proprio la UE ha introdotto dazi interni, soprattutto per questioni ambientali, che sono un problema nei rapporti con gli Stati Uniti; secondo, perché senza una vera svolta che sostenga le aziende, spiega Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, le imprese del vecchio continente sono destinate al disastro industriale.
Non basta allora cercare di diminuire il 30% di aumento che vuole imporre Trump alle nostre esportazioni: occorre capire che è prima di tutto l’Europa a dover fare i conti con sé stessa e con le sue politiche, come suggeriscono Meloni, Merz e Macron con il documento che hanno annunciato, in particolare sul Green Deal e il futuro dell’automobile.
USA e UE potrebbero orientarsi per dazi al 15%: un accordo che risolverebbe in qualche modo la situazione?
I dazi sono troppi anche se sono al 5%, però vediamo che cosa succede. La preoccupazione che abbiamo come Confindustria è che alla tariffa nuda e cruda si aggiunga una forte svalutazione del dollaro. Ci sono tensioni tra l’amministrazione Trump e la Fed di Powell e questo spinge la valuta americana verso il basso. Se i dazi fossero al 15%, ma ad essi si aggiungesse un altro 15% per la svalutazione del dollaro, arriveremmo vicino al 30%: una situazione comunque pesante.
L’amministrazione americana ha scatenato una politica dei dazi anche sulle materie prime, che ha causato fenomeni di accaparramento delle risorse. Le nostre industrie avranno un problema di reperibilità delle materie prime?
È un problema generale dell’Europa, che in tutti questi anni ha pensato soltanto al climate change e non alla sicurezza strategica, che passa attraverso la tutela dei suoi sistemi industriali. Oggi si scopre, col rapporto Draghi, che il reperimento delle materie prime rare, come litio, coltan, rame, è un problema serio per l’industria europea. Per quanto riguarda gli effetti dei dazi sull’acciaio, praticamente li abbiamo già scontati. Gli Stati Uniti hanno imposto un dazio del 25% con la prima amministrazione Trump nel dicembre 2018: l’Italia allora esportava un milione circa di tonnellate di acciaio negli USA; nel 2024 era intorno alle 200 mila tonnellate, meno dell’1% della produzione nazionale.
Cosa temete adesso?
Temiamo gli effetti distorsivi causati da altri Paesi. Chi esportava acciaio negli Stati Uniti e non riuscirà più a farlo cercherà di entrare in Europa, che resta il mercato più aperto del mondo. Per questo la UE si deve svegliare, perché rischia di essere investita, soprattutto da parte cinese, da una valanga di overcapacity in tutti i settori industriali. I cinesi stanno scalando tutte le classifiche dell’industria, ma spesso dietro le aziende ci sono enormi sovvenzioni dello Stato. Fino ad oggi il modello tedesco, che prevedeva esportazioni monstre in Cina, ha sempre ritardato o ostacolato misure di protezione nei confronti del commercio sleale cinese, ma oggi questo modello di sviluppo non c’è più.
L’Europa dovrà introdurre dazi?
Siamo tutti per i mercati aperti, però nei confronti di esportazioni sovvenzionate, dell’unfair trade, occorre far valere tutti gli strumenti dell’antidumping, che gli americani fanno funzionare molto meglio di noi. Per fare scattare una procedura negli Stati Uniti bastano sei mesi, in Europa ci vogliono due anni, talvolta tre. L’Europa deve capire che il paradigma del mondo è cambiato, che non è più la prima della classe, se mai lo è stata, che non può dettare a tutto il mondo le regole. Anzi, deve occuparsi dei suoi dazi interni.
Quali dazi?
Draghi ha detto che ci sono dazi interni del 45% per l’industria e del 110% per i servizi. Sono anche queste barriere interne che rendono difficile la trattativa con gli americani. Trump ha fatto notare che penalizzano fortemente il commercio con gli Stati Uniti e le esportazioni USA in Europa. La UE però non fa niente. Anzi, la proposta appena presentata dalla von der Leyen, il piano di bilancio che ha scatenato le proteste di tutti, prevede di utilizzare il 30% dell’ETS, cioè soldi che dovrebbero ritornare per norma europea alle imprese per aiutarle a decarbonizzare, per finanziare il budget della Commissione. Questo percorso ci porterà al disastro industriale.
C’è una simulazione sulle conseguenze effettive che questi tassi al 30% o al 15% avranno sulle nostre aziende?
Ci sono delle simulazioni. Si è detto che tassi al 30% potevano significare quasi l’1% di PIL di meno, il 15%, quindi, dovrebbe significare la metà.
I dazi USA possono mandarci in recessione?
C’è il rischio che questa vicenda porti a un forte rallentamento, se non una recessione, dell’economia, rispetto alla quale, però, l’Europa deve fare i conti con sé stessa. La vicenda dei dazi è una sveglia nei confronti di un sistema di gestione, di politica economica e industriale che non va. L’Europa, vent’anni fa, aveva lo stesso PIL degli Stati Uniti, oggi ha un PIL pari a due terzi di quello americano. I redditi pro capite erano uguali, oggi il reddito pro capite medio europeo è il 60% di quello degli Stati Uniti. La prima grande impresa europea è la Total, che mi pare sia al dodicesimo posto a livello mondiale, ed è un’azienda di oil and gas, energetica. Siamo completamente fuori da tutte le tecnologie di punta: l’intelligenza artificiale, le biotecnologie. Nel farmaceutico vanno tutti a prendere i brevetti in Cina e negli Stati Uniti perché da noi durano la metà.
La vicenda dei dazi, quindi, diventa quasi secondaria?
Non lo è, perché avrà effetti su molti settori; penso all’agroalimentare, ad esempio, dove esportiamo negli USA 50 miliardi all’anno. Non è poco. Benissimo negoziare, ma l’Europa deve dirci se è disponibile a ragionare sui suoi dazi interni, tipo ETS (sistema di scambio delle quote di emissione, n.d.a.) e CBAM (il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere, n.d.a.). Non lo sappiamo, nessuno ce lo dice, perché nella UE c’è una tecnocrazia guardiana che domina tutto.
La UE ha gli strumenti per risollevarsi?
Abbiamo il più grande mercato del mondo, 450 milioni di consumatori ricchi, abbiamo avuto grazie all’euro tassi di interesse vicini allo zero, addirittura negativi, che avrebbero consentito investimenti, ricerca e sviluppo, innovazione. Niente di tutto questo è stato fatto. Però abbiamo voluto imporre il Green Deal a tutta forza e una sola tecnologia per le auto, scegliendo l’elettrico senza dire dove si va a prendere l’energia, puntando sulle rinnovabili quando si sa bene che non sono sufficienti perché discontinue. Altro che dazi, questo è il quadro di un’Europa che non ce la fa.
C’è, almeno, nel dibattito europeo, un segnale che questi temi sono sul tavolo, sulla necessità di iniziare una riflessione seria su un possibile cambio di rotta?
Il fatto che stia per uscire un documento comune di tre premier come Meloni, Merz e Macron sul Green Deal, sull’automobile, sulla politica industriale, significa che finalmente si prende atto che l’Europa non è uno Stato federale, ma che, invece, ci sono accordi intergovernativi tra Stati che la Commissione attua. Bruxelles non detta la linea. Questo documento è un segnale chiaro alla Commissione: “Guarda che devi cambiare, perché così sbattiamo contro il muro”.
(Paolo Rossetti)
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