I dati che arrivano sull'economia americana hanno indebolito il dollaro e rafforzato euro: così l'effetto dei dazi Usa si amplifica
Il mercato del lavoro americano negli ultimi tre mesi ha avuto l’andamento peggiore dalla pandemia. Questo è ciò che emerge dal dato di luglio sul numero di nuovi occupati, comunicato ieri insieme alla revisione dei mesi di giugno e maggio. In questi tre mesi si sono aggiunti in media solo 35mila posti di lavoro al mese. La debolezza del mercato del lavoro è un campanello dall’allarme sulla fiducia delle imprese e sulla propensione al consumo delle famiglie americane.
Il dato sembra vendicare sia il Presidente Trump che da mesi chiede un taglio dei tassi, che il Presidente della Fed si rifiuta di concedere, sia i membri dissenzienti della banca centrale americana. Ieri il Vicepresidente per la vigilanza Michelle Bowman e il Governatore Christopher Waller hanno pubblicato due note separate con cui hanno invocato un cambio di politica monetaria proprio per i timori di deterioramento del mercato del lavoro.
Ciò che accade in America è decisivo anche per le sorti europee. Ieri, dopo la pubblicazione dei dati, il dollaro ha invertito la rotta di rafforzamento iniziata lunedì, quando il mercato aveva scommesso contro la valuta comune dopo aver appreso il livello dei dazi americani. Il cambio euro/dollaro è tornato sopra 1,15 e il biglietto verde ha perso l’1% contro l’euro.
Gli investitori hanno scommesso su un rallentamento della crescita americana al punto che in meno di 24 ore le probabilità di un taglio al prossimo meeting della Fed di settembre sono passate dal 40% a quasi il 90%; giovedì si scontava un solo taglio dei tassi prima della fine dell’anno, mentre ieri due con una possibilità del 30% di un terzo taglio.
Quanto successo sul mercato delle obbligazioni statali americane ieri pomeriggio ha avuto un effetto anche sui mercati europei. Fare previsioni è complicato, ma da ieri c’è un elemento in più da considerare per chi spera che l’indebolimento dell’euro possa controbilanciare i dazi di Trump.
Il Presidente americano non ha atteso neanche la fine della mattinata per rivolgere nuove critiche a Powell, “stupido testardo”, che si rifiuta di tagliare; ha invocato l’ammutinamento dei membri del board della Fed perché prendano il controllo della politica monetaria. La questione però non è così semplice.
Intanto l’incremento dell’inflazione degli ultimi mesi sarebbe avvenuto nonostante un mercato del lavoro mai così debole dai tempi della pandemia. Inevitabile quindi chiedersi dove sarebbero i prezzi con un mercato del lavoro “normale”. Il fatto che l’inflazione, per quanto in salita, non abbia passato livelli di guardia non dà risposte definitive sull’impatto dei dazi.
Infatti, le imprese americane hanno fatto scorte record prima dell’annuncio dei dazi e inoltre le catene di distribuzione e i produttori cercano di rimandare il più possibile i rincari; tanto più se la domanda è debole.
Powell è obbligato a chiedersi cosa accadrebbe ai mercati finanziari e alle obbligazioni statali se gli investitori avessero la percezione che la priorità è il mercato del lavoro a prescindere dai rischi sui prezzi. La risposta non è rassicurante.
A questo punto è il momento di chiedersi che male ci sarebbe a privilegiare il mercato del lavoro e a tagliare facendo salire i prezzi. La risposta è duplice: l’inflazione fa tanto più male quanto più si scende nelle classi di reddito e tanto più i lavoratori fanno fatica a ottenere aumenti. I tassi bassi gonfiano le bolle finanziarie e beneficiano chi è investito sui mercati lasciando ai margini chi non ha i risparmi. Si può persino sospettare che la narrazione dei tassi bassi che “servono per sostenere l’economia e far abbassare i mutui” sia il ricatto con cui vengono passate politiche per i ricchi travestite da politiche per poveri.
Non sembra quindi che ci sia una soluzione tra la posizione di Powell preoccupato per i prezzi e la fiducia sulle obbligazioni statali e quella di Trump che vuole sostenere il mercato del lavoro. C’è però una prospettiva che merita di essere considerata. Le politiche che hanno esaurito la capacità degli Stati di indebitarsi per “salvare l’economia” hanno beneficiato alcuni, chi era investito sui mercati e aveva asset finanziari o equiparabili, molto più di altri.
Se non si può più scaricarne il costo sul contribuente, tanto più in un contesto che è strutturalmente inflattivo, bisognerebbe porsi il problema di chi debba e possa pagare il conto.
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