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Home » Esteri » Usa » SPILLO/ Così Harvard & Co. pagano dazio a Trump

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SPILLO/ Così Harvard & Co. pagano dazio a Trump

Nicola Berti
Pubblicato 4 Agosto 2025
Harvard

Il campus di Harvard (Ansa)

Le grandi università Usa, tra cui la celebre Harvard, si arrendono alla Casa Bianca: sull'antisemitismo e altro

A fari mediatici semispenti le grandi università private statunitensi si accodano nel pagar dazio a Donald Trump: sborsando letteralmente decine o centinaia di milioni di dollari per porre fine all’assedio posto dalla Casa Bianca. Per tornare a poter accettare liberamente le iscrizioni tutto il mondo o quasi, principale fonte di reddito. E poi per poter continuare ad accedere a miliardi di finanziamenti pubblici federali. Su entrambi i fronti Trump aveva colpito duramente con decreti esecutivi lo scorso maggio.


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La newyorkese Columbia University si è piegata a un ormai canonico “deal” trumpiano da 221 milioni di dollari. La Brown (stella minore della Ivy League) ha transato a quota 50. Armistizi più o meno onerosi sono alla firma per Penn, Princeton, Northwestern, University of California Los Angeles.

Il cessate il fuoco ufficiale è comunque atteso da Harvard, dove si annuncia il “padre di tutti i settlement”. Sarà il passaggio-svolta paragonabile all’intesa raggiunta otto giorni fa tra Usa e Ue sui dazi commerciali. E l’esito, fin d’ora, non appare diverso: con Trump vincitore almeno tattico e le università costrette a sanzioni finanziarie e soprattutto a cambi drastici di protocolli per il reclutamento di docenti e studenti, per la ricerca e la didattica con una stretta sul contrasto all’antisemitismo.


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La guerra delle università si conclude sullo stesso terreno su cui era scoppiata – per la verità ancora prima che Trump tornasse alla Casa Bianca -, ma si conclude ora su uno sfondo più vasto e profondo. È una confrontation che ha avuto sviluppi più complessi e meno leggibili di quella che ha terremotato il commercio globale. Ma non meno centrali e interessanti in uno scenario di transizione magmatica.

Era ancora l’autunno del 2023 quando – poco dopo il 7 ottobre di Hamas – i grandi campus Usa hanno cominciato a essere scossi da proteste contro la reazione di Israele a Gaza. I vertici accademici sono subito finiti nella morsa fra popolazioni di docenti e studenti scopertisi in misura non trascurabile pro-pal e, sul lato opposto, “proprietari” (cioè ricchi donatori attivi come “trustee” nell’amministrazione degli atenei) in rapido allarme per l’aperta opposizione al Governo Netanyahu.


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Nelle stanze dei bottoni (finanziari) la presenza di molti tycoon israeliti – talora israeliani – è “di maggioranza relativa”: ed è un settore della comunità ebraica da tempo saldo nell’appoggio alla destra di governo a Gerusalemme e nel favore per la tolleranza zero di Trump sul versante dell’antisemitismo negli Usa. Ciò ha accelerato la politicizzazione della questione universitaria negli States: quando già iniziava la campagna presidenziale e mano a mano che l’Amministrazione Biden si impantanava nel “Vietnam” di Gaza.

È stato così che già all’inizio del 2024 la rettrice (afro) di Harvard, Pauline Gay, è stata cacciata per non aver voluto reprimere tendopoli e cortei pro-pal, venendo subito sostituita ad interim da un collega “uomo-bianco-israelita”. Era stata preceduta nel licenziamento in tronco dalla rettrice della Penn, messa lei pure sotto accusa dai repubblicani pro-Israele in una tesa audizione al Congresso.

Poche settimane dopo è toccato alla “president” della Columbia, bastione newyorkese dell’intellighenzia liberal (molto venata di ebraismo “progressive”). La Columbia è stata poi sgombrata dalla polizia di sindaco dem, dopo un comizio-appello ai cancelli dello Speaker repubblicano della Camera di Washington.

Quando Trump ha accelerato verso la Casa Bianca – venendo alla fine rieletto – non ha sorpreso nessuno che la lotta all’antisemitismo sia tornata suo cavallo di battaglia, come nel primo mandato. Ma alla prova concreta l’offensiva contro le università ha assunto connotati politico-culturali più vasti: laddove il fine di fermare e disarticolare il fronte anti-Netanyahu è risultato in parte un pretesto, essendo stato in in buona parte già raggiunto dalla controffensiva interna ai campus, ispirata da donor e faculty filo-Gerusalemme.

La reale finalità strategica di “Trump vs Harvard” si è così rivelata una resa dei conti con la cultura politically correct (o woke, nella sua declinazione più recente): cioè l’humus-collante accademico-mediatico dell’antitrumpismo. Il sistema delle storiche istituzioni universitarie americane era d’altronde entrato da tempo nel mirino di chi – nella destra populista non meno che nella sinistra radicale – ne criticava la progressiva affermazione delle pure logiche di business (da diplomifici brandizzati a prezzi luxury). Di qui la polemica sociopolitica contro la chiusura tendenziale ai ceti meno privilegiati, con rischi crescenti di anomalie elitarie nella selezione meritocratica di studenti e docenti.

In questo contesto non è mancato più di un corto-circuito: anche nella exit di questi giorni. L'”appeasement” delle università “democratiche” con Trump matura proprio quando sta entrando in crisi l’assimilazione finora dogmatica fra critica a Israele, antisionismo e antisemitismo. La fortissima escalation globale contro il Governo Netanyahu sta alla fine depotenziando la Memoria della Shoah come giustificazione pregiudiziale per ogni “autodifesa dello Stato ebraico”. La storica pretesa etnico-religiosa di Israele – del suo Governo politicamente estremista – sta anzi dando credito crescente a chi accusa Gerusalemme di “genocidio” a Gaza, oltreché di deriva autocratica nel governo nel Paese.

Oggi, probabilmente, la strage di rettrici americane colpite dalle fatwe di antisemitismo e di collateralismo indiretto ad Hamas sarebbe molto più difficile, forse impossibile. Ma intanto 18 mesi di campagne filo-Israele da parte degli establishment accademici hanno sostenuto la rielezione di Trump e spalancato le porte dei campus all'”invasione” del trumpismo anti-woke.

Questo è avvenuto d’altronde senza alcuna resistenza visibile da parte della più vasta comunità ebraica americana (2,7 milioni, di cui tre quarti continuerebbero a votare dem), Ma neppure una forza portante dello sviluppo mediatico-culturale del politically correct è parsa capace di rompere il tabù aprioristico delle ragioni di Israele: anche se ora i “dazi universitari” di Trump negli Usa eserciteranno una pressione oggettiva anche su battaglioni di docenti israeliti progressisti, nelle loro libertà di pensiero, parola, ricerca e insegnamento.

Solo nelle ultimissime settimane dalla comunità Usa si sono levate voci importanti contro l’abuso della denuncia-antisemitismo a fini politici: per legittimare il prosieguo della guerra a Gaza o il suo ampliamento a Libano, Yemen, Iran e Siria; per respingere le accuse della Corte Penale Internazionale o di un numero crescente di governi; per puntellare a Gerusalemme la destra religiosa e nazional-imperialista; per sostenere Trump-2 nel suo primo e cruciale anno. Ma restano voci isolate e spesso contestate.

Nel contempo le strette preoccupazioni economico-finanziarie – pur all’interno di istituzioni votate alla conoscenza – hanno certamente contribuito a produrre in fretta effetti decisivi al tavolo universitario della Casa Bianca. Evaporate sul nascere campagne d’opinione sul rischio di deflusso di cervelli dagli Usa verso poli accademici di altri Paesi, Harvard e le sue sorelle hanno pensato a riaprire in fretta i propri mega-store sul mercato globale dell’advanced education.

Le forti turbolenze indotte dell’AI, fra l’altro, sono troppo pericolose per lasciare che milioni di studenti – finora abbagliati dal mito della Ivy League o di Stanford – possano scoprire l’attrattività del prezzo-qualità di altri diplomi fuori America.

Resta il fatto che un ateneo come Harvard – che poggia su un piedistallo patrimoniale di 50 miliardi di endowment – avrebbe avuto forse le munizioni per condurre contro Trump una resistenza pluriennale: rinunciando a 2 miliardi all’anno di finanziamenti federali e studiando strategie innovative contro l’embargo imposto dalla Casa Bianca alle iscrizioni dall’estero (ad esempio puntando sul digitale oppure delocalizzandosi in Europa). Ha preferito non farlo.

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Tags: Donald TrumpBenjamin Netanyahu

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