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Home » Esteri » Medio Oriente » TRAGEDIA GAZA/ Ben-Gvir, ostaggi e stragi, i fatti che obbligano Netanyahu a fermarsi

  • Medio Oriente
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TRAGEDIA GAZA/ Ben-Gvir, ostaggi e stragi, i fatti che obbligano Netanyahu a fermarsi

Albert Bozo
Pubblicato 5 Agosto 2025
Proteste anti-Netanyahu a Tel Aviv nel settembre 2024 (Ansa)

Proteste anti-Netanyahu a Tel Aviv nel settembre 2024 (Ansa)

Ieri quasi 600 ex funzionari della sicurezza israeliana hanno rivolto un appello a Trump perché faccia pressioni su Netanyahu perché metta fine alla guerra

Nel settembre del 2000 il generale Ariel Sharon (tra i fondatori del Likud, partito della destra nazionalista, ed eletto primo ministro nel 2001), circondato dalla sua scorta armata, compì la provocatoria passeggiata sulla Spianata delle Moschee, a Gerusalemme, luogo sacro per gli arabi, dove sorge la Cupola della Roccia (con la Moschea al-Aqsa costituisce l’al-Ḥaram al-Sharīf, considerato dal sunnismo il terzo sito più sacro del mondo islamico, un’area che ricade sotto la protezione del regno hashemita di Giordania), dalla quale i musulmani sostengono Maometto salì al cielo.


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Il blitz di Sharon infranse il patto stretto da Moshe Dayan, dopo la guerra dei Sei Giorni, che s’era impegnato a lasciare la Spianata entro i confini della Gerusalemme Est palestinese. E segnò l’inizio della seconda intifada (la sollevazione), che durò cinque anni, una vera guerriglia di logoramento, tra attentati terroristici e suicidi, agguati armati contro civili israeliani e reazioni, che causò la morte di oltre 700 civili.


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L’altro giorno il ministro per la sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, scortato da decine di agenti, insieme a fanatici e membri delle organizzazioni Temple Mount, ha scalato il Monte del Tempio/Al-Aqsa Compound, cantando ad alta voce preghiere ebraiche. “Con una tempistica – suggerisce Amos Harel su Haaretz – che va compresa in un contesto politico più ampio”.

La posta in gioco, secondo l’analista israeliano, è la crescente preoccupazione per gli ostaggi ancora detenuti a Gaza e l’ampio sostegno pubblico a un accordo per garantire il loro rilascio, anche a un prezzo elevato. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, consapevole del sentimento pubblico, sembra aver cambiato rotta dichiarando il suo sostegno a un accordo globale con Hamas.


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Un passo avanti? Al contrario. Un accordo completo comprende questioni non ancora discusse o concordate, e l’annuncio di Bibi potrebbe risultare solo un’altra tattica di stallo da parte del primo ministro.

Intanto, Ben-Gvir non perde occasione per alimentare l’odio: la passeggiata dell’altro giorno non è la sua prima volta. Nel maggio 2021 annunciò che stava trasferendo il suo ufficio a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, suscitando le reazioni di Hamas, da una parte, e l’ira di Netanyahu dall’altra. Che però, un anno e mezzo dopo, strinse l’alleanza con i partiti messianici di destra Otzma Yehudit e il sionismo religioso, nominando proprio Ben-Gvir ministro della sicurezza nazionale e membro del gabinetto.

“Dalla sua nomina – sostiene Harel –, Ben-Gvir ha costantemente minato i regolamenti della polizia per il Monte del Tempio e ha alimentato l’indignazione nel mondo arabo e musulmano”.

Oggi, mentre gli zeloti di destra celebrano il blitz sul Monte del Tempio, dall’ufficio del Primo ministro chiariscono che non è previsto alcun cambiamento allo status quo: quindi o Netanyahu non era avvisato sull’iniziativa di Ben-Gvir, o la visita era invece coordinata, con i negoziati sugli ostaggi in sottofondo.

Scontate le reazioni internazionali: Emirati Arabi Uniti e Cina hanno chiesto una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu (una delle iniziative più inutili a disposizione), e da Arabia Saudita, Giordania e Qatar è arrivata una prevedibile nota di condanna. Ormai la soglia d’attenzione mondiale sul Medio Oriente sembra essersi decisamente abbassata: un deficit entro il quale si possono scatenare nell’indifferenza i più spietati egoismi, spacciati per volontà messianiche o presunti diritti ancestrali.

Intanto, a Gaza il dramma peggiora, e non sta lasciando indifferenti nemmeno ampi strati della popolazione e della classe dirigente israeliana. Ieri quasi seicento ex funzionari dell’apparato di sicurezza israeliano (Mossad e Shin Bet) hanno chiesto al presidente degli Stati Uniti Donald Trump di fare pressione su Netanyahu affinché ponga fine all’operazione militare di Israele a Gaza e riporti così “a casa gli ostaggi”.

“Fermate la guerra a Gaza!”, riporta la lettera del movimento “Comandanti per la sicurezza di Israele” (CIS), firmata da 550 ex capi delle spie, militari, funzionari di polizia e diplomatici e resa pubblica nella notte tra domenica e lunedì.

“Abbiamo il dovere di farci sentire”, ha detto Ami Ayalon, ex direttore dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna, in un video diffuso dal movimento. “Questa guerra è iniziata come una guerra giusta, una guerra difensiva. Ma una volta raggiunti tutti i suoi obiettivi militari e ottenuta una brillante vittoria militare contro tutti i nostri nemici, ha cessato di essere una guerra giusta. Sta portando lo Stato di Israele a perdere la sua sicurezza e identità”.

La popolazione affamata e le immagini diffuse da Hamas di due ostaggi israeliani ridotti a scheletri viventi sono però accompagnate dalle dichiarazioni degli stessi terroristi sull’indisponibilità a qualsiasi accordo di pace in mancanza di un ritiro completo delle truppe di Tel Aviv.

Hamas ha anche ribadito che non accetterà il disarmo finché non verrà istituito uno Stato palestinese sovrano, con Gerusalemme capitale. Richieste surreali, ma Hamas pensa di poter contare sulle condanne internazionali di Israele, mentre l’estrema destra israeliana continua a chiedere la piena rioccupazione di Gaza e la deportazione “volontaria” dei palestinesi.

Il premier francese Macron ha detto che le “immagini insopportabili” di ostaggi israeliani a Gaza sono la prova della “illimitata disumanità” di Hamas, chiedendo la sua totale demilitarizzazione e l’esclusione da qualsiasi forma di governo a Gaza. Lo stesso Macron che, primo tra i governanti del G7, sta chiedendo il riconoscimento dello Stato palestinese.

Ma quale Stato? Nessuno affronta il problema dell’eventuale frazionamento tra Striscia e Cisgiordania, senza alcuna continuità territoriale, e senza una plausibile autorità comune, vista l’inadeguatezza e la delegittimazione che caratterizzano oggi l’ANP nella West Bank, e vista la tenace irriducibilità dei fanatici guerriglieri.

Resta il fatto che se i due contendenti, Israele (unica democrazia di tutta l’area) e Hamas (i terroristi islamici che nel 2007 presero il potere sulla Striscia) non si riconoscono vicendevolmente il diritto di esistere, qualsiasi soluzione sembra ad oggi solo un miraggio nel deserto di macerie che è diventata tutta Gaza.

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Tags: Benjamin NetanyahuDonald Trump

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