Negli Stati Uniti, e non solo, ci si muove per portare in patria alcune produzioni strategiche. Ma l'Ue sembra immune da questa tendenza
I summit sull’Ucraina di questi giorni hanno fatto passare in secondo piano alcuni eventi finanziari rilevanti. Venerdì scorso, quando gli occhi di tutti erano puntati sull’incontro tra Trump e Putin in Alaska, il Presidente americano ha deciso di estendere i dazi applicati all’alluminio e all’acciaio, oggi pari al 50%, a più di 400 categorie di beni che ne includono i metalli. All’interno di queste categorie rientrano motociclette, stoviglie, componentistica auto e molti altri beni.
Dal punto di vista della Casa Bianca è inutile mettere dazi all’importazione di acciaio per tenere la porta aperta ai loro derivati. L’obiettivo di questa Amministrazione, infatti, è creare catene di forniture in settori strategici controllabili e al riparo da rischi geopolitici; questo significa, a seconda dei casi, incentivare la costruzione di nuovi impianti sul territorio americano oppure in Paesi “amici” che accettano di collocarsi stabilmente nella sfera economica e politica di Washington.
In questi giorni l’Amministrazione Trump valuta l’ingresso nell’azionariato di Intel con una quota che potrebbe arrivare fino al 10%. Sarebbe una novità assoluta per gli Stati Uniti che trasformerebbero una società che capitalizza oltre cento miliardi di euro in una sorta di partecipata statale. Anche in questo caso l’obiettivo è incentivare la costruzione di impianti di produzione di chip, considerati critici, sul suolo americano; l’urgenza è dettata anche dal rischio di un conflitto tra Cina e Taiwan che rischia di mettere fuori gioco il principale produttore mondiale di chip.
La stessa logica emerge nei dazi all’importazione di rame il cui obiettivo è incentivare il rientro delle fonderie di rame, un settore oggi dominato dalla Cina. Anche in questo caso l’obiettivo finale è la presa su catene di fornitura considerate strategiche.
Questi processi di rientro della capacità produttiva, in un’ottica di sicurezza e sovranità, non sono un’esclusiva degli Stati Uniti. Dalla Turchia all’India, passando per i Paesi del Mediterraneo meridionale fino all’Africa subsahariana e all’Asia i Paesi si attrezzano per mettere al riparo i propri settori industriali da conflitti geopolitici e dalla fine della globalizzazione. Più il settore è strategico, più alti sono gli incentivi al rientro; dall’energia, all’agricoltura, fertilizzanti in testa, e poi i settori industriali di base come appunto quello dei metalli o della chimica di base.
L’obiettivo finale è considerato talmente importante che tutti gli altri passano in secondo piano. È chiaro, per esempio, che questo processo è inflattivo perché richiede investimenti colossali e la costruzione di impianti in luoghi meno competitivi di quelli originali. Qualsiasi produzione spostata dalla Cina non può che costare di più di prima.
L’unica regione del mondo immune a questo processo è l’Europa, che per la sua sicurezza energetica dipende dalle importazioni di gas americano e dalla componentistica “green” cinese e che condiziona gli accordi di fornitura di lungo termine di gas in Medio Oriente a valutazioni di moralità politica oppure all’imposizione di obiettivi di decarbonizzazione.
L’altra faccia della medaglia dei dazi di Trump è il blocco alle esportazioni di componenti critici messo in atto dalla Cina che, in questo modo, è riuscita a ritagliarsi un potere negoziale. È un monito per l’Europa che rimane ricattabile senza un minimo di realismo sui propri settori strategici.
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