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Home » Economia e Finanza » BLUE ECONOMY/ Le risorse europee che l’Italia rischia di perdere

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BLUE ECONOMY/ Le risorse europee che l’Italia rischia di perdere

Stefania Debora Gandini
Pubblicato 2 Settembre 2025
Commissione Ue

La sede della Commissione europea a Bruxelles (Ansa)

La Blue economy è importante non solo in Italia, ma in tutta l'Ue. Anche per questo esistono fondi comunitari per favorirne lo sviluppo

Tutti ormai sanno che le politiche della Comunità europea sono incentrate sulla transizione verde e che anche tutte le attività connesse con il mare – che si possono riassumere nel termine Blue economy – sono considerate fondamentali per attuare questo processo. Non tutti, però, sono coscienti della pioggia di miliardi di euro messi a disposizione dalla Commissione europea per il decennio in corso.


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Andando con ordine, il programma più completo è il Green Deal. Lanciato nel 2019 dalla Commissione europea, racchiude le direttive per rendere l’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. Ovviamente, non è solo un piano ambientale, porta a una vera trasformazione economica e sociale prevedendo una riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030, con la crescita delle energie rinnovabili, la decarbonizzazione dei trasporti e la protezione degli ecosistemi terrestri e marini.


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Il Green Deal viene finanziato attraverso vari strumenti finanziari come il Just transition fund e altri investimenti pubblici e privati, fino a ad arrivare oltre a 1.000 miliardi di euro previsti fino al 2030. Risorse molto ingenti, che in gran parte serviranno anche a finanziare le attività di innovazione e crescita sostenibile della Blue economy, settore ritenuto decisivo per la transizione ecologica.

Vediamo ora in dettaglio quali sono i programmi principali a cui far riferimento. Il programma Horizon Europe dispone di 95 miliardi di euro per ricerca e innovazione, inclusi progetti sul mare e sulla protezione delle acque, mentre il Fondo europeo per gli affari marittimi, la pesca e l’acquacoltura (Emfaf) sostiene la pesca sostenibile e lo sviluppo dell’acquacoltura. Poi c’è il programma BlueInvest che fornisce supporto a start-up e piccole imprese innovative, mentre i fondi del Next Generation Eu, strumento straordinario da 750 miliardi di euro, attraverso il Pnrr, finanziano progetti di decarbonizzazione e digitalizzazione.


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Le amministrazioni pubbliche e soprattutto le imprese italiane possono scegliere tra una rosa di possibilità, ma il raggiungimento dei fondi resta spesso un miraggio. Ebbene, quali sono i maggiori ostacoli? L’Italia ha una conformazione dell’economia (e l’economia del mare non fa eccezione) fatta di piccole medie imprese, spesso prive di personale qualificato, mentre i bandi europei richiedono competenze tecniche elevate e a volte partenariati internazionali. Ecco che per ovviare, almeno in parte ma non in modo sufficiente, a questi impedimenti sono nate reti di supporto come l’Enterprise europe network (Een) raggiungibile attraverso le Camere di Commercio, Invitalia e strutture regionali come Lazio Innova, che aiutano le Pmi a navigare nelle complesse richieste di iscrizione dei format europei.

Un programma europeo che ci riguarda da vicino perché si occupa del Mediterraneo è BlueMissionMed, che fa parte della ben più ampia Missione Restore our Ocean and Waters, con oltre 40 miliardi di fondi e l’obiettivo di ripristinare gli ecosistemi marini e delle acque interne. Nel 2024 sono stati erogati 127 milioni di euro per finanziare 26 progetti transnazionali e la call stimata per il 2025 è di 120 milioni.

L’Italia, grazie al suo ampio affaccio sul Mediterraneo è uno dei Paesi chiave. Wwf Italia, Consorzio per la pesca, molte università come quelle di Ferrara e Padova, imprese private, amministrazioni hanno avuto accesso ai fondi spesso consorziandosi fra loro o con partner stranieri.

Tutta italiana invece è la strada di accesso ai fondi del Pnrr, la cifra certa è oltre 120 miliardi già erogati per mettere in pratica progetti dedicati alla portualità sostenibile, alle energie rinnovabili offshore e alla digitalizzazione. In altri settori dell’economia del mare la risposta delle imprese è stata più debole, a causa della mancanza di progetti pronti o, anche qui, della difficoltà di accesso alle procedure.

Inutile negarlo, il gap delle Pmi italiane è la capacità di trasformare le opportunità in progetti concreti e necessitano di supporto. Mentre le imprese più grandi non si fanno sfuggire le occasioni e, potendo contare su personale qualificato, riescono ad accedere senza problemi alle risorse disponibili. Sembrerebbe quanto meno opportuno in questo panorama che le Istituzioni coordinassero la regia nazionale, soprattutto per evitare che i fondi europei destinati all’economia del mare possano restare inutilizzati e ritornare a Bruxelles.

Le risorse ci sono e i bandi vengono pubblicati con regolarità, sulla carta parliamo di miliardi. Ma la domanda sorge spontanea: l’Italia saprà garantire che anche le piccole e medie imprese possano beneficiarne? Perché i fondi sono un giubbotto salvagente lanciato dall’Europa per le nostre Pmi che possono diventare più innovative e sostenibili, così da essere competitive sul mercato europeo e internazionale.

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