L'ultima brillante idea dell'UE sarebbe quella di sanzionare la Cina per il suo aiuto alla Russia. Fortunatamente Ungheria e Slovacchia si oppongono
L’Unione Europea starebbe valutando l’introduzione di sanzioni secondarie contro la Cina che è ormai il principale acquirente di idrocarburi russi. Pechino ha finora evitato di aiutare direttamente la Russia in Ucraina e non ha inviato né armi né, tanto meno, uomini. La Cina è consapevole che gli aiuti diretti l’avrebbero messa in una posizione internazionale complicata, tanto più con in corso una guerra commerciale a tutto campo con gli Stati Uniti; Pechino ha però approfittato delle sanzioni europee per aumentare le forniture russe a prezzo scontato.
Esattamente come gli Stati Uniti alzano i dazi contro l’India per i suoi acquisti di petrolio russo, l’UE, sulla base dello stesso ragionamento, potrebbe sanzionare le istituzioni finanziarie o le società di trasporto cinesi coinvolte nel commercio di idrocarburi con Mosca.
Le discussioni sarebbero in una fase iniziale e l’UE dovrebbe come minimo risolvere il problema dell’unanimità che è necessaria per poter introdurre le nuove sanzioni. Ungheria e Slovacchia sarebbero infatti contrarie.
È difficile ipotizzare che la Cina non reagisca a un’eventuale mossa di Bruxelles. La guerra commerciale con gli Stati Uniti può dare un’indicazione di quale sarebbe la contromossa di Pechino. La reazione cinese, dopo la prima ondata di dazi USA, è stato il blocco delle esportazioni delle terre rare che hanno moltissime applicazioni nell’elettronica e nelle tecnologie “green”.
La Cina negli ultimi tre decenni ha costruito una posizione di dominio assoluto in questo segmento. Per potere costruire una catena alternativa servono molti anni, molti investimenti e occorre che le aziende “occidentali” siano schermate dalla concorrenza cinese che oggi ha un vantaggio di costo incolmabile.
L’opposizione di Trump ai campi eolici offshore è molto più di una scelta ideologica in favore degli idrocarburi. Essa riflette sia una scelta economica, per evitare che il sistema energetico si fossilizzi su una tecnologia più costosa che richiede batterie, sia una scelta politica, per evitare che si costruisca una dipendenza dalla tecnologica cinese.

L’Europa ha pagato le sanzioni contro il gas russo con una crisi energetica che continua, ancora oggi, con prezzi dell’elettricità doppi di quelli antecedenti alla guerra. Questo è il caso sia dell’Italia che della Germania. L’Europa ha fatto una scelta di campo sulle fonti rinnovabili, eolico e solare, che, a prescindere da qualsiasi valutazione economica, dipendono da catene di fornitura che affondano in Cina.
La tecnologia dei pannelli solari, piuttosto che delle batterie o delle pale eoliche è in gran parte cinese; in alcuni segmenti, come quello delle celle fotovoltaiche, la quota di mercato supera il 90%. Questo significa che non c’è un’alternativa nemmeno in un orizzonte temporale di medio periodo.
L’Europa dopo la fine delle forniture di gas russo si è rivolta agli Stati Uniti e ai Paesi del Golfo; in entrambi i casi si possono sollevare perplessità geopolitiche, perché l’amministrazione Trump dichiara di mettere davanti a tutto gli interessi dell’America e perché il Medio Oriente sembra una polveriera.
La grande speranza di una sovranità europea è finora passata dal sogno green, che però l’Europa non controlla in nessun modo. L’unica alternativa è il nucleare, con due “caveat”. Quello tradizionale funziona ma costa molto, perché l’Europa ha perso know-how e capacità industriale; fatto dai cinesi avrebbe costi più bassi, ma si tornerebbe al punto di partenza in termini geopolitici. Quello di nuova generazione sembra promettente, ma non arriverà prima della metà della prossima decade.
L’Europa che oggi valuta sanzioni secondarie contro la Cina dovrebbe valutare le possibili contromosse del Paese asiatico alla luce della sua fragilità energetica. Se ci sono strumenti per recuperare autonomia in questo settore non dovrebbero esserci preclusioni ideologiche e ciò include lo sviluppo di idrocarburi di “prossimità”. La prima crisi energetica ha messo in crisi la manifattura europea; sarebbe meglio evitarne una seconda in meno di cinque anni.
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