Kamala Harris nel suo libro “107 Days” snocciola tutti gli errori dei democratici. “Resistere” per far inciampare Trump, questa è l’unica strategia
Nell’America che strilla contro Donald Trump per i suoi attacchi alla stampa è in corso un singolare insabbiamento politico-mediatico. E l’autore non è il presidente accusato di autocrazia, ma il milieu del Partito democratico, appoggiato da una maggioranza silenziosa di grandi media.
La notizia oggetto di “cover up” è il libro 107 Days appena pubblicato da Kamala Harris, la vicepresidente di Joe Biden candidata in corsa un anno fa alle presidenziali contro Trump e nettamente sconfitta. Di retroscena-bomba il volume non ne contiene e anche l’analisi della lunga débâcle dem non va oltre una superficiale ovvietà.
Però le stroncature frettolose – a media unificati – mal celano il fine di zittire una voce che nell’autunno 2025 ha voluto rompere l’omertà che tuttora rimuove fra i dem il trauma della seconda sconfitta in tre presidenziali contro Trump.
La prima verità scomoda affermata da Harris è che i dem al potere dal 2020 hanno perso la Casa Bianca meritatamente, dopo aver inanellato una serie di errori miserabili e imperdonabili; sopratutto, inconcepibili per un partito che rivendica da sempre – sulla scena globale – la sua superiorità etico-politica. Sono stati sbaragliati i dem per definizione “best and brightest” da quasi un secolo: si trattasse di Roosevelt o di Kennedy, di Clinton o di Obama.
La vicepresidente-candidata Harris racconta invece di un partito slegato, logoro e pressapochista, tanto cinico quanto privo di visione. Un partito in cui i Grandi Vecchi (i Clinton, gli Obama, Nancy Pelosi) hanno potuto prima spodestare un presidente troppo a lungo protetto dall’omertà sulla sua salute; poi calpestare la democrazia interna alla Convention di Chicago; infine lasciare la candidata al suo destino prevedibile nei 107 giorni di una campagna improvvisata, caotica, in mala fede, nella quale i leader più giovani si sono segnalati per una latitanza ai limiti del boicottaggio (a cominciare da Gavin Newsom, il governatore della California di cui Harris è stata senatrice).
Un anno dopo nulla sembra essere cambiato fra i dem: e questa è – in filigrana visibile – la seconda notizia che Harris ha voluto comunicare, togliendosi qualche sassolino dai “tacco dodici” per lei d’ordinanza. Ma scuotere l’albero – anche con un libro in nulla clamoroso – resta evidentemente intollerabile per l’intero establishment dem, al solito allargato a media, showbiz, università e finanza.

La censura al libro della candidata “usa e getta” finisce così per apparire una delle molte facce di una strategia elementare, alla fine debole perfino nella tattica: “resistere, resistere, resistere” a Trump per altri quattro anni; rifiutarlo come ennesimo “errore della storia”; tendergli ogni possibile tranello nella speranza che inciampi definitivamente (meglio se prima del 2028). Ma sempre in silenzio.
Nell’ennesimo chiasso scandalizzato per l’oscuramento di Jimmy Kimmel da parte della Disney, continua a restare afona una questione: perché nella prima linea dell’opposizione a Trump ci sono solo giornalisti o magistrati? Nella democrazia Usa – 250 anni nel 2026 – l’opposizione dovrebbe avere per teatro centrale il Congresso: dove sono i rappresentanti e i senatori dem a incalzare la Casa Bianca su tutti i fronti?
I dem stanno tenendo una postura paradossale perfino nel loro “fortino” di New York, dove il giovane Zohran Mamdani – deputato dello Stato – ha stravinto a sorpresa le primarie del partito per le elezioni del sindaco. Ma ha sconfitto l’ex governatore Andrew Cuomo – “vacca sacra” del partito – e sta avendo la meglio anche sul sindaco uscente Eric Adams, campione dem quattro anni fa e poi travolto dagli scandali e rinnegato dai dem al punto che lo stesso Trump vorrebbe sostenerlo come candidato di disturbo.
Sta così accadendo che tre mesi dopo le primarie e ormai a sei settimane dal voto, il “primus inter pares” fra i dem newyorkesi, il senatore Chuck Schumer, stia ancora negando il suo endorsement a Mamdani, che a differenza di Harris – ha reali chances di successo, avendo lavorato molto e bene alla propria candidatura.
Potrebbe così avvenire che una prima vera riscossa dem – a un anno dal voto di metà mandato per l’amministrazione Trump – maturi senza l’appoggio aperto, esteso e convinto del partito. Ciò nella più iconica città statunitense, in cui il residente più famoso è il presidente in carica.
La famiglia Obama, intanto, continua la sua infinita vacanza dorata in Italia, a Portofino, protetta all’arrivo da No fly zone che gli abitanti di Kiev o di Gaza non possono neppure sognare. Ma tanto ai dem Usa le guerre in corso – lasciate scatenare da Biden – interessano assai meno dell’eterna crociata verde di Obama, che il Nobel per la pace lo ha vinto subito “a prescindere”.
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