L’annuncio del piano USA per Gaza ha conciso con la massima sfiducia degli arabi per Trump, che ora, come gli israeliani, deve recuperare posizioni
Hamas ha detto sì. Ma è un sì condizionato. Libererà gli ostaggi, ma vuole trattare alcuni punti del piano di Trump per mettere fine alla guerra a Gaza. Il clima però, stavolta, non è lo stesso delle altre trattative e far tacere le armi, spiega Filippo Landi, già corrispondente RAI a Gerusalemme e inviato del TG1 Esteri, è nell’interesse sia degli USA che di Israele.
La richiesta del Qatar a Trump di garantire per iscritto la sua sicurezza, assicurando che non ci sarebbero stati altri attacchi a Doha, significa che il mondo arabo non si fida più neanche degli americani, tanto meno degli israeliani.
Ora le trattative partiranno dalla liberazione degli ostaggi e la corrispondente scarcerazione di 250 palestinesi con condanne pesanti. È il primo scoglio da superare in un negoziato che rischia ancora di saltare.
Hamas dice sì alla liberazione degli ostaggi, ma ora bisogna negoziare i “dettagli”. Però le questioni sul tappeto sono importanti. Si arriverà a un accordo?
È vero che il diavolo è nei dettagli, ma in questa circostanza c’è l’interesse di più protagonisti a porre fine alla guerra in corso, prima ancora che definire i dettagli di una possibile pace. Dopo la presentazione del piano di Trump all’opinione pubblica si è toccato il punto più basso della credibilità e dell’affidabilità degli Stati Uniti: non per niente quando il presidente americano ha detto che Hamas aveva tre o quattro giorni per dare una risposta, sono passati un paio di giorni in cui Hamas stesso e i mediatori arabi sono rimasti incerti sul da farsi.
Per quale motivo?
Nel mondo arabo e palestinese c’era il timore che un nuovo incontro di confronto sul piano americano si trasformasse nell’occasione per un nuovo attacco di Netanyahu, per un altro terribile bagno di sangue sul suolo del Qatar. Ecco perché da parte del Qatar è giunta la ferma richiesta agli Stati Uniti di farsi garante per iscritto, non più verbalmente, della sicurezza del Paese e dei suoi ospiti, non solo palestinesi. Significa che nessuno si fidava più non solo di Netanyahu, ma neanche di Trump, temendo che il piano di pace fosse una spettacolare esca per concludere il lavoro sporco iniziato il giorno prima.
Come è finita?
Trump è stato costretto a firmare un ordine presidenziale che inserisce il Qatar e la sua sicurezza tra le priorità nazionali degli Stati Uniti. Solo dopo questo a Doha si sono riuniti gli esponenti di Hamas ed è arrivato anche il capo dei servizi segreti turchi. È un aspetto importante, perché nella realtà dei fatti oggi lo sguardo non è più su quello che Hamas fa o non fa, ma sulle reali intenzioni degli Stati Uniti, se intendono affermare una deriva che ha già portato alla distruzione di Gaza e a decine e decine di migliaia di morti, oppure se questa volta Israele troverà in loro un alleato capace di dire no alla strategia della guerra ad ogni costo.
Le trattative che dovrebbero cominciare in queste ore su cosa verteranno principalmente: disarmo e ritiro dell’esercito israeliano?

Innanzitutto saranno sulla liberazione degli ostaggi da parte di Hamas, in cambio dei prigionieri il cui numero è stato indicato già ai margini della riunione tra Netanyahu e Trump alla Casa Bianca, i famosi 250 palestinesi condannati all’ergastolo e oggi in prigione, alcuni da moltissimi anni. Bisognerà capire se tra questi ci sarà o meno Marwan Barghouti, uno dei leader storici, non di Hamas, ma del movimento palestinese di resistenza. Questo sarà il primo banco di prova.
Perché questo è il primo tema da trattare?
Bisogna tenere conto dell’esperienza del novembre 2023 e del gennaio di quest’anno, quando a fronte della liberazione di un certo numero di prigionieri e di ostaggi israeliani si bloccò la scarcerazione dei palestinesi e quindi anche degli ultimi prigionieri israeliani in mano ad Hamas. Quel percorso si è già interrotto più volte, questa volta ci sarà una grossa attenzione perché non si cambino ancora le carte in tavola.
Quali sono gli altri punti da chiarire?
Un altro passaggio importante è la richiesta di disarmo fatta da Trump: su questo si capirà che cosa significa disarmo, se cedere tutte le armi offensive, come i mortai a breve o lunga gittata e i razzi, oppure anche pistole e fucili, quelli che Hamas ha definito armi di difesa. Hamas ha detto sì ad uscire dal controllo politico e militare di Gaza, ma ha detto no a un governo tecnocratico, non a guida palestinese o in cui non prevalga il supporto palestinese.
Questo cosa significa?
Significa porre in discussione il ruolo di Tony Blair, sul quale esprimono perplessità anche altre componenti palestinesi. L’espressione più usata per indicare il board che guiderà la transizione a Gaza è “ufficio coloniale”. E di colonialismo in Medio Oriente se ne ha fin sopra i capelli.
In teoria anche i palestinesi dovrebbero essere rappresentanti nell’International governing board ipotizzato dal piano Trump. Sarà così?
Il problema è che non siamo più nella fase della teoria, è il momento di mettere sul tavolo le vere intenzioni. Ora Blair appare anche il nume tutelare della British Petroleum: c’è da sfruttare il gas nella zona di mare davanti a Gaza.
Che cosa fa capire che questa volta la trattativa è diversa rispetto al passato?
La decisione di Trump di valutare positivamente quello che fin qui ha detto Hamas, assecondando perfino la richiesta dell’organizzazione palestinese di fermare i bombardamenti israeliani prima di qualsiasi altra discussione, ci dice della volontà americana di non far saltare il tavolo da gioco. Credo che tutto questo sia nell’interesse non solo degli americani, ma anche degli israeliani.
Perché è meglio anche per Israele?
Gli Stati europei, pur balbettanti, discutono il congelamento delle relazioni militari e commerciali con Israele, mentre a livello popolare, non solo in Europa si è palesato un movimento vastissimo che chiede ai governi di congelare gli affari e il commercio delle armi con Israele, ponendolo nella situazione in cui fu messo il Sudafrica negli anni Ottanta. Si tratta di un elemento importante: gli israeliani non possono più pensare di fronteggiare la situazione come ha fatto il ministro della Sicurezza Ben-Givir, che ha inscenato un mediocre spettacolo televisivo chiamando terroristi i membri della Flotilla arrestati. Israele ha perso la guerra mediatica: il conflitto non si può più affrontare come prima.
I temi da trattare nel negoziato sono complessi: ci vorrà tempo o c’è la necessità di fare in fretta?
L’uno e l’altro. Non è ancora iniziata la trattativa sui dettagli e sentiamo dire che il 9 ottobre si ritroveranno a Parigi i Paesi che pensano al futuro di Gaza: vuol dire che qualcuno cerca di impedire che la trattativa salti al primo ostacolo. È un pericolo che si corre ancora. I negoziati non iniziano in Qatar ma in Egitto: forse neppure l’ordine esecutivo di Trump su Qatar ha ancora tranquillizzato tutti. E Al Sisi ha dichiarato che se si fosse ripetuto ciò che è successo a Doha le conseguenze sarebbero state gravi.
(Paolo Rossetti)
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