Disagio giovanile, format sperimentato al Meeting: lavoro di gruppo partendo da situazioni concrete. Così gli adulti non sono soli ad affrontare la realtà
L’ipotesi che vi sia una macroscopica svista educativa all’origine dei crescenti disagi psicologici e comportamentali che un’intera generazione manifesta è sostenuta dallo psicologo sociale statunitense Jonathan Haidt. La sua ricerca, divenuta in breve bestseller, La generazione ansiosa, descrive il fenomeno attuale della rilevante diffusione dei disturbi in età adolescenziale e giovanile e le sue possibili cause: negli ultimi due decenni si è verificato un processo di “riconfigurazione dell’infanzia”, prodotto da un paradossale eccesso di protezione dei bambini, privati della libertà di esplorare autonomamente il mondo reale da un lato, dall’altro lasciati soli di fronte agli smartphone e ai social media, considerati erroneamente sicuri da parte degli adulti.
Agli interrogativi cruciali che ne emergono si aggiunge il fatto che nei giovani l’ansia nasconde una sete di senso, di relazioni autentiche, di essere davvero visti e ascoltati. L’ansia giovanile è forse anche una risposta comprensibile all’incuria relazionale subita? L’uso compulsivo fino alla dipendenza dei dispositivi digitali può essere sintomo di un bisogno inascoltato di comunicazione e riconoscimento? Qual è la responsabilità del mondo adulto – genitori, educatori, istituzioni – nell’accompagnare i giovani?
Non si tratta solo di limitare l’accesso tecnologico o di trovare nuove regole, ma di sviluppare competenze educative più profonde: l’arte dell’ascolto, la capacità di offrire presenza autentica, il coraggio di rimettere al centro la relazione educativa.
Tuttavia le domande, i comportamenti, le provocazioni o i drammi della generazione giovanile spiazzano gli adulti. Genitori, insegnanti, nonni, educatori tante volte non sanno cosa fare e cosa pensare. Si cerca di trovare la risposta giusta, ma ci si sente incompetenti. Come provare a tirar fuori le “competenze” proprie dell’adulto, stretto tra le facili colpevolizzazioni e la tentazione di delegare la responsabilità ad altri (gli “esperti”). La questione interessante è poter contribuire in senso operativo allo sviluppo di tali competenze, compresi l’ascolto e l’educazione, così da evocare la domanda dei ragazzi, senza censurare le loro istanze, e insieme convocare la responsabilità degli adulti, offrendo possibilità metodi e strumenti per un loro “esserci” positivo.
Ma quali modalità mettere in campo per lavorare con genitori che sentano l’urgenza di chiedere un aiuto? È opinione di molti che alcune iniziative utilizzate siano piuttosto inefficaci: o perché si riducono a fornire consigli e suggerimenti da applicare o perché ci si ferma a formulazioni belle e suggestive da ascoltare, ma difficili da tradurre in opera da parte degli adulti che, una volta a casa, devono mettersi in relazione con una realtà problematica. Anche la conferenza del nome di grido, nell’illusione che l’esperto dica come fare, lascia poi soli alla prova del “tuo” adolescente. Sembra evidente che si tratti di trovare modalità più adeguate a supportare gli adulti coinvolti, facendo leva su bisogni, domande e competenze presenti, spesso negate da tanti insuccessi o contraddette da tanti smacchi e sconfitte ad opera dei nostri eroi adolescenti.

Per verificare come rispondere a tali esigenze, anzitutto il metodo è partire dall’esperienza, da situazioni di vita: dormire sul banco di scuola per l’uso di dispositivi sino a tarda notte, episodi di bullismo a scuola (esercitati o subiti ), rifiuto delle regole di orario, ragazze che si procurano danni al corpo (lesioni alle braccia, restrizioni alimentari), ragazzi chiusi nella loro cameretta senza comunicare con nessuno, difficoltà di relazione e conflitti dolorosi.
Sono esempi di situazioni che potrebbero essere presentate da figure come un genitore, un insegnante, un operatore professionista ecc., a seconda di chi desidera candidarsi. Le modalità delle presentazioni occorre siano semplici e immediate, per favorire la discussione. Il problema che emerge, le questioni sollevate, gli aspetti da considerare: ecco il materiale su cui lavorare, in modo non tanto da trovare soluzioni, quanto da dipanare insieme la matassa. Si tratta poi di individuare domande e indicazioni che aiutino l’adulto a non essere solo di fronte al problema e a percepirsi dentro una comunità (la “coalizione comunitaria”, la rete sociale).
La sperimentazione si può svolgere con un gruppo di adulti, al massimo una ventina, due conduttori, uno nella funzione di animatore, l’altro di osservatore con il compito di fare la sintesi dell’incontro e proporre dei punti provvisori a conclusione. Uno dei partecipanti porta il “caso”; segue una prima fase di domande per capire meglio quanto esposto, poi avviene lo scambio di pareri intorno al ruolo che gli adulti hanno giocato in quella situazione specifica, senza dare giudizi morali.
A tema è proprio la presenza dell’adulto: come è stato presente il genitore/i, l’insegnante/i, gli eventuali amici, i medici, altri operatori? Come si sono mossi e come avrebbero potuto muoversi? Al termine (la durata dovrebbe stare nei 90 minuti), l’osservatore propone una sintesi delle considerazioni emerse e l’indicazione dei punti su cui ritrovarsi in un secondo incontro. I successivi incontri saranno alimentati, a giudizio del conduttore del gruppo, o dagli approfondimenti delle questioni fino a quel momento emerse o dalla presentazione di un nuovo caso da parte di uno dei partecipanti. Il modello in alcuni aspetti è simile a un “gruppo Balint” per adulti desiderosi di capire come esserci.
Quali esiti si possono attendere? Adulti che escano dall’isolamento e dalla sensazione di impotenza, con il vantaggio di costruire vie alternative a sterili posizioni come il rinunciare a essere presenti delegando ogni intervento o all’opposto lo strafare. La verifica dei risultati potrebbe essere affidata a dei semplici questionari, strutturati o no, che sollecitino i partecipanti a esprimersi sul loro vissuto e sul clima della relazione nel loro ambito (familiare o scolastico) prima e dopo i lavori di gruppo.
Il tempo è propizio per non limitarsi ad additare presunti colpevoli o a enunciare considerazioni teoriche che poco mordono la vita reale. La proposta di dar vita a esperienze sul campo di questo genere non è evidentemente la soluzione al problema del disagio giovanile correlato all’incompetenza educativa e relazionale degli adulti. Ma rappresenta un tentativo di restituire ai protagonisti ciò che è loro, offrendo degli strumenti alla pratica che favoriscano l’esercizio di un’autentica responsabilità attraverso l’esperienza e la sua verifica.
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