Gestione di Gaza, Hamas senza armi: nel piano Trump molti punti da chiarire. Ma alla fine Israele e Paesi arabi potrebbero normalizzare i rapporti
Una pace fragile, con tanti punti che devono essere chiariti nelle trattative. Un accordo che però ha permesso di raggiungere obiettivi che fino a qualche tempo fa sembravano lontanissimi per Gaza. Di sicuro ci sono mediatori arabi e americani che ci hanno messo la faccia e assicurato la fine della guerra, la liberazione degli ostaggi, l’invio degli aiuti, ma è altrettanto vero che su tutto il resto le incognite sono tante.
La prima, osserva Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente, riguarda il disarmo di Hamas. Le perplessità nascono da questo e anche dal ruolo dei partiti nazionalisti e ultrareligiosi che hanno bocciato l’accordo pur rimanendo nel governo: non vogliono mollare il potere per continuare, per esempio, a tenere in scacco la Cisgiordania, dove le violenze non si placano e i coloni la fanno da padrone.
È un altro importante nodo da sciogliere nei negoziati che seguiranno alla liberazione degli ostaggi prevista entro lunedì. Intanto Trump si appresta ad arrivare in Medio Oriente, in Egitto per sancire l’accordo e in Israele per parlare alla Knesset.
Come stanno vivendo i Paesi arabi l’accordo per la fine della guerra di Gaza?
C’è grande ottimismo, felicità per la fine delle sofferenze della popolazione palestinese e la possibilità di far entrare gli aiuti, che avrebbero già cominciato a fluire verso la Striscia. C’è anche grande orgoglio perché gli accordi saranno firmati in Egitto, molto probabilmente con la presenza di Trump, un riconoscimento per il ruolo avuto dal Cairo.
Netanyahu, comunque, ha detto che se non si rispetteranno in tutto e per tutto gli accordi si ritorna alla guerra: il rischio di combattere di nuovo è ancora alto?
Le preoccupazioni sono tantissime perché la situazione è molto delicata e basta un nulla perché degeneri: ci sono molte questioni che non sono ancora definite e gli intoppi possono essere dietro l’angolo.
Al di là del rilascio degli ostaggi, della fine dei bombardamenti e dell’ingresso degli aiuti non è chiaro, per esempio, se Hamas sarà disarmata o meno, se giocherà un ruolo nel futuro di Gaza, chi governerà esattamente la Striscia, come sarà gestita la sua ricostruzione. Ci sono tante incognite e tutto potrebbe fermarsi in una qualsiasi di queste fasi, anche nella prima, quella attuale.
Hamas si è sempre rifiutata di rilasciare tutti gli ostaggi senza assicurazioni sulla fine della guerra. Se stavolta si è convinta è perché le garanzie, anche se non ci sono del tutto chiare, le ha avute?
Hamas ha ribadito che ha avuto garanzie, dai Paesi mediatori come dagli Stati Uniti, che questo accordo andrà avanti e porterà a qualcosa. Già il rilascio, in cambio di 20 ostaggi, di tanti prigionieri palestinesi, comprese tutte le donne e i bambini, è di per sé un risultato. Pure la fine dei bombardamenti e l’ingresso degli aiuti sono un risultato. Rimane da vedere se Hamas accetterà di disarmarsi, cedere il controllo su Gaza e non giocare un ruolo nel futuro. Questa è una grande incognita.
Se ci dovesse essere un intoppo nella definizione di uno di questi punti Israele tornerebbe a bombardare?
Bisogna vedere come sarà l’intoppo. Hamas potrebbe fare delle concessioni, si è parlato per esempio della consegna delle armi pesanti e non di quelle leggere, già questo sarebbe una soluzione. Ha già accettato di dare spazio a un governo tecnocratico. Sono tante le strategie con cui Hamas potrebbe dare l’immagine di essere comunque disponibile a concedere qualcosa.
E a Netanyahu potrebbe anche andare bene. Non dimentichiamo che portare avanti questa guerra ha un costo economico, logistico e di vite umane anche di soldati israeliani: Israele non può affrontare tutto ciò a cuor leggero.
Erdogan, per “convincere” Tel Aviv a evitare colpi di coda, ha detto che se sarà ancora genocidio Israele la pagherà cara. Come vanno interpretate queste parole?

Erdogan diceva che non avrebbe mai stretto la mano del presidente egiziano e adesso con lui ci sono continui scambi di cortesie, accordi, esercitazioni comuni. In politica si dicono tante cose, poi si apre una nuova pagina e cambia tutto. Non mi stupirei se a un certo punto tutti i Paesi arabi normalizzassero i rapporti con Israele, anche la Turchia, con la quale ha già un rapporto storico.
Qual è il vero punto da chiarire di questo accordo?
Il disarmo di Hamas. Mi sembra già chiaro, infatti, che non avrà un ruolo nel governo di Gaza. Poi bisognerà vedere se a governare la Striscia sarà l’ANP, una coalizione di Paesi arabi o un organismo internazionale con a capo Blair.
Alcuni definiscono il piano di Trump neocoloniale: i palestinesi sono abbastanza coinvolti?
Non sono stati coinvolti nella proposta di accordo, ma il fatto stesso che lo accettino significa che sono coinvolti, altrimenti lo potevano rifiutare in toto. Se si parla di liberazione degli ostaggi in cambio della scarcerazione di prigionieri vuol dire che i palestinesi sono coinvolti nelle trattative. Non bisogna dimenticare, poi, che l’Egitto in tutti questi due anni ha lavorato per unificare il fronte palestinese, comprese Hamas e ANP. Se nascerà un governo tecnocratico a Gaza sarà anche grazie a questi sforzi.
Perché Israele non ha voluto liberare Marwan Barghouti, leader della Seconda Intifada, in carcere da anni?
Ci sono certe figure iconiche che potrebbero diventare punti di riferimento ed essere individuati come leader e che Israele non ha nessuna intenzione di rilasciare, per la sconfitta simbolica che questo rappresenterebbe e perché rafforzerebbe le file palestinesi, magari unificandoli pure. E poi Netanyahu deve mantenere degli equilibri con l’estrema destra, che già deve ingoiare il fatto che la guerra si fermi. Barghouti è lo stesso che Ben-Gvir umiliava riprendendolo in carcere in un video.
Perché la destra israeliana ha votato contro l’accordo, l’atto politico più importante da Oslo in poi, rimanendo nel governo?
Stare nel governo conviene sempre e la destra ha un’agenda che sta portando avanti. Penso a quello che sta facendo in Cisgiordania, che creerà i presupposti per nuovi problemi: il rafforzamento degli insediamenti e l’impunità dei coloni per questa parte politica sono risultati importanti. Nella West Bank si stanno comportando come prima, anche questo sarà un nodo da sciogliere.
Chi gestirà alla fine la fase della ricostruzione, chi saranno i protagonisti della transizione per far risorgere Gaza dalle sue ceneri?
È una delle grandi incognite, probabilmente arabi e palestinesi giocheranno un ruolo, ma è chiaro che i finanziamenti non possono che arrivare dai Paesi del Golfo e che c’è sicuramente un interesse da parte di Trump e Blair, anche di tipo personale: dietro le quinte giocheranno un ruolo con i loro capitali e i loro fondi. Credo, tuttavia, che si faranno tutti gli sforzi affinché non sembri che i palestinesi vengano governati da potenze coloniali.
La possibilità che ci siano due Stati rimane un’utopia o è un’ipotesi che resta sullo sfondo?
Per gli arabi, per i palestinesi e per la comunità internazionale l’unica strada rimane quella dei due Stati. Forse in questi due anni anche Hamas se ne è convinta. Dall’altro lato Netanyahu e l’estrema destra israeliana hanno detto che non succederà mai. Un tempo, però, nessuno si sarebbe immaginato accordi di pace di Israele con Egitto e Giordania o gli Accordi di Abramo. Magari a un certo punto anche gli israeliani si renderanno conto che è l’unica strada percorribile.
(Paolo Rossetti)
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