Per la Cassazione è giusto sanzionare i giudici in ritardo nella scrittura delle sentenze: il caso della toga che deposita le sentenze dopo 7 anni
Esattamente come per tutte le altre professioni, anche i giudici in ritardo – secondo una recente sentenza della Cassazione – devono essere sanzionati qualora la loro condotta sia reiterata e grave, oltre che – naturalmente – non debitamente giustificata da ragioni “superiori” che hanno comportato la deposizione delle sentenze ben oltre i limiti stabiliti dalla legge: una sentenza – quella della Cassazione – destinata a fare giurisprudenza al fine (scrivono gli stessi Ermellini) di garantire ai cittadini la definizione del processo in tempi ragionevoli.
Partendo dal principio, è utile ricordare che il caso in esame alla Cassazione riguardava una giudice sanzionata dal Consiglio Superiore della Magistratura (ovvero il CSM) per i notevole ritardi accumulati nella deposizione delle sue sentenze: ritardi continuativi tra l’aprile del 2016 e il marzo del 2021, pari a circa l’80% dell’intero carico di lavoro della giudice in quell’arco di tempo e che – in alcuni casi – si sono protratti anche per 2mila 555 giorni, ovvero sette anni dalla fine del processo.
La Cassazione da ragione al CSM sulla giudice in ritardo: “Non vi sono giustificazioni per la condotta reiterata e grave”
Per via dei ritardi il CSM aveva deciso di sanzionare la giudice con le revoca di due mesi dall’anzianità accumulata indossando la toga ed è qui che è il caso è approdato in Cassazione: secondo la dottoressa, infatti, si trattava di una sanzione ingiusta e sproporzionata rispetto alla sua condotta, ma analizzando il caso per filo e per segno, alla fine gli Ermellini hanno dato ragione all’ente disciplinare della magistratura.

Secondo la Cassazione, infatti, i ritardi accumulati sarebbero tali da non permettere di “escludere la scarsa rilevanza (..) oggettiva”, superando – addirittura – “l’annualità” e in ogni caso il “triplo del termine previsto dalla legge”; peraltro senza che vi siano reali “giustificazioni” dal punto di vista del “carico di lavoro” o delle “carenze di organico”: la condotto – precisa la Cassazione – sarebbe, insomma, da addurre a una inefficiente organizzazione del “proprio lavoro” da parte della giudice, a spese del “diritto delle parti” a chiudere il processo “in tempi ragionevoli”.
