UNIVERSITA’/ Dal Governo il primo passo per una vera riforma

«Difficilmente criticabile». Così si è espresso il Ministro Gelmini riguardo al decreto legge appena varato dal Consiglio dei ministri. Vero, ma solo se si tratta di un primo passo

«Difficilmente criticabile». Così si è espresso il Ministro Gelmini riguardo al decreto legge appena varato dal Consiglio dei ministri. «Difficilmente criticabile». Vero, ma solo se si tratta di un primo passo.

Il testo del provvedimento (pubblicato da IlSole24ore in versione non ancora definitiva) presenta in effetti a prima vista più luci che ombre. Le luci concernono le modifiche al turn over, il diritto allo studio, la destinazione di una parte dei finanziamenti in base ai risultati della valutazione. Le ombre riguardano le modifiche dei meccanismi di formazione e la composizione delle commissioni dei concorsi già banditi e il divieto, imposto agli atenei con i conti dissestati, di assumere nuovo personale docente. Vediamo più in dettaglio.

1.      Le rigidità del turn over fissate dalla L. 133 vengono ammorbidite, consentendo alle università di assumere unità di personale nel limite del 50% della spesa cessata nell’anno precedente. Viene dunque cancellato il limite relativo alle “teste”. In parole povere, se prima si poteva assumere una persona ogni cinque pensionamenti ora il vincolo riguarda solo la spesa ed è meno stringente. Ad esempio, a fronte del pensionamento di un ordinario (il cui costo lordo poniamo sia circa 165.000 euro all’anno) si potranno usare 82.500 euro per assunzione di nuovo personale (per esempio 2 ricercatori).

2.      Positivo è anche lo stanziamento di risorse per il diritto allo studio. Il Ministro ha dichiarato di voler così accogliere le osservazioni del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari che, con una mozione di pochi giorni fa, aveva denunciato la gravità e irrazionalità dei tagli previsti nelle tabelle della finanziaria.

3.      Molto importante, sebbene per ora solo parziale, l’allocazione di una quota di FFO in base ai risultati della valutazione (ma aspettiamo il decreto ministeriale prima di cantare vittoria). Si tratterebbe finalmente dell’introduzione di un criterio di differenziazione in base al merito.

4.      Insoddisfacente è invece la decisione di modificare i meccanismi di composizione delle commissioni dei concorsi già banditi. Questa operazione appare più di facciata che di sostanza: non assicura necessariamente maggiori garanzie di imparzialità e rischia di dar luogo a una raffica di ricorsi giurisdizionali.

5.      Al di là della prima impressione, altrettanto di facciata sembra essere il divieto di reclutamento di nuovi docenti per gli atenei che hanno spese di personale superiori al 90% di FFO (queste università sono anche escluse dalla ripartizione dei fondi stanziati dalla finanziaria 2007 per il reclutamento straordinario dei ricercatori). La disposizione non convince in quanto: a) una norma che limita la possibilità di assumere nuovo personale per gli atenei che hanno spese di personale superiori al 90% esiste dal 1997 (art. 51 comma 4 L. 449/97), ma ciò non è stato sufficiente ad assicurare un equilibrato sviluppo degli organici; b) come in passato non sono previsti meccanismi che ne garantiscano l’applicazione (attraverso eventualmente irrogazione di sanzioni); c) riguarda solo il personale docente (e non quello tecnico amministrativo). Sarebbe stato più efficace prevedere specifici accordi finanziari di programma con gli atenei che si trovano in situazioni economiche di dissesto.

Considerato tutto quanto sopra sinteticamente descritto il decreto legge è da valutarsi nel complesso positivo. Ma, intendiamoci, con questo provvedimento il Governo ha parzialmente rimediato alle misure cieche contenute nella manovra d’estate. Come ha detto lo stesso Ministro Gelmini, non si tratta di una riforma dell’università. Il vero banco di prova, dove il Governo è chiamato a dimostrare il suo spessore culturale e politico, si gioca nel prossimo (sottolineo prossimo) futuro. Ben vengano allora le linee guida, ma si tenga presente che non è concepibile nessuna riforma seria dell’Università senza affrontare due questioni fondamentali e connesse cui tutto il resto è subordinato.

1.      In primo luogo occorre ripensare alla radice i meccanismi del finanziamento statale alle università in modo da assicurare una dinamica certa dell’andamento del FFO e da garantire una seria ed efficace programmazione economica in cui siano chiari gli incentivi (in base al merito) e le responsabilità. È evidente che si tratta di un problema complesso, ma non ce la si può cavare continuando a mettere pezze nuove su un vestito vecchio. Perpetuare una politica sull’università “a singhiozzo” non fa altro che aggravare la situazione rinviando sine die la soluzione di problemi che non sono contingenti, ma strutturali.

2.      L’altro aspetto decisivo riguarda i modelli organizzativi (l’autonomia) degli atenei. La questione comprende il (ma non si esaurisce nel) problema della governance poiché non si tratta appena di ristabilire il riparto di funzioni e di poteri tra rettore, senato accademico e consiglio di amministrazione. «Mi riferisco alla necessità di spezzare l’attuale carattere di uniformità disciplinare, scientifica e organizzativa dell’università italiana e di promuovere un sistema di autonomie cautamente competitive negli atenei, stimolando anche in università l’imprenditorialità individuale e collettiva e assicurando al sistema universitario adeguati livelli di produttività». Così scriveva un autorevole professore di diritto amministrativo, Umberto Pototschnig nel 1988. Parole che oggi, a distanza di vent’anni, sono più vere che mai e sottintendono la necessità di capovolgere il rapporto tra Ministero e Università: al primo tocca di operare le grandi scelte della politica universitaria e di risponderne poi in Parlamento; alle seconde spetta la responsabilità di tutto il resto (in questo senso il problema dei modelli organizzativi adombra altri problemi ben noti: valore legale del titolo di studio, autonomia didattica, competizione e comparazione tra atenei, stato giuridico dei docenti, ecc.). Il punto non è opporre privato a pubblico, ma autonomia a centralismo. Tutto questo, infatti, riguarda la forma organizzativa delle università. Queste ultime devono (per dimensioni, contesto territoriale, specificità formative) potersi articolare in modo diverso, realizzando quella promessa di autonomia sempre ritardata da un centralismo antico che affonda le sue radici nella legge Casati del 1859 e di cui non riusciamo a liberarci.

La nostra storia ci ha spesso mostrato come interventi legislativi tampone siano poi rimasti in vigore per anni. Bisogna a tutti i costi evitare che – dopo questo decreto legge – ci si fermi. Occorre che da oggi in poi il tavolo istituito dal Ministro con CRUI, CUN e CNSU lavori giorno e notte, perché questa è l’unica azione proporzionata alla serietà della questione universitaria. Senza una chiara strategia di rilancio che affronti il problema dell’impegno finanziario dello Stato e dei modelli organizzativi degli atenei, questo sarà l’ennesimo tra i tanti (troppi) provvedimenti estemporanei che hanno riguardato (e spesso funestato) l’università italiana negli ultimi venti anni. Troppo facile sarebbe accontentarsi di puntellare un sistema ormai vecchio e, in una logica gattopardesca, fingere di cambiare tutto per non cambiare niente. Governo e rettori sono chiamati alle loro responsabilità.

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