Un senso alle nostre vacanze

La vacanza, sosteneva Fëdor Dostoevskij, è un’idea borghese. Ma come si fa a dare un senso alle vacanze?

La vacanza, sosteneva Fëdor Dostoevskij, è un’idea borghese. “Il borghese per esempio”, si legge in Note invernali su impressioni estive, “oltre all’esigenza di accumulare denaro e a quella dell’eloquenza, ne ha altre due, due esigenze delle più legittime, consacrate dall’universale consuetudine e alle quali egli si applica con straordinaria, poco meno che patetica, serietà. La prima esigenza è: voir la mer, vedere il mare.

Perché mai deve vedere il mare? (…) Un’altra legittima e non meno forte esigenza del borghese, e del borghese parigino in particolare, è il se rouler dans l’herbe”. L’ironia del grande scrittore russo è molto a segno anche oggi circa 150 anni dopo la formulazione di quel giudizio. I nostri nonni o i nostri bis nonni, contadini, pre borghesi, non andavano in vacanza, non avevano mai visto il mare, non avevano bisogno di rotolarsi nell’erba. Avevano meno informazioni di noi e tuttavia erano più dentro l’universo e i suoi ritmi di gran parte di noi.

E non è che fossero meno felici. Come sostiene un altro grande russo in uno dei suoi pensieri improvvisi, Andrej Sinjiavskij: “Un tempo l‘uomo nella cerchia familiare era legato alla vita universale – storica e cosmica – in un modo assai più ampio e saldo di oggi. Pur avendo a disposizione giornali, musei, radio, comunicazioni aeree, noi avvertiamo appena questo fondo comune, non ne siamo molto compenetrati e ci pensiamo poco”.

E tuttavia la vacanza di oggi, dell’uomo del 2010, è comunque un’occasione. E’ vero, può essere un momento alienante di massa anche’esso, persino nella versione fighetta (negli anni Settanta-Ottanta c’era sempre la copertina dell’Espresso dal titolo: “Le vacanze intelligenti”). E però sarebbe frustrante oggi ragionare ancora e solamente sulla falsa libertà di quel tempo “libero” che la nostra convivenza ci assegna. Vedere il mare o rotolarsi nell’erba, poniamo in un prato di montagna, sono comunque cose belle in sé, dentro o fuori lo schema borghese della rispettabilità sociale. Che non vanno disprezzate.

 

Così come non va persa l’occasione di leggere i libri che non si sono letti durante l’anno, di sentire meglio la musica ascoltata prima distrattamente, di riflettere o pregare in santa pace e soprattutto di viaggiare. Perché viaggiare comunque è incontrare e vedere cose nuove e persone nuove. Il senso della vacanza può essere allora davvero questo: vivere la libertà vigilata che ci viene concessa in questo poco tempo come un’opportunità. Conosco ormai diverse persone che dedicano un pezzo della vacanza a fare qualcosa per sé e soprattutto per gli altri, che non c’entri con il lavoro di tutto l’anno. Essere volontari, in Italia o all’estero, magari in Africa, oppure più semplicemente al film festival di Giffoni o al Meeting di Rimini. E’ gente che torna al proprio lavoro ordinario o al proprio studio con una carica maggiore, un volto più riposato, uno spirito più rinfrancato.

 

Andare in vacanza così, fra l’altro, non ha bisogno di grandi investimenti. Dà l’impressione (o anche l’illusione) di aver liberato la vacanza da quell’odiosa atmosfera di “ora d’aria” collettiva. Di consumistica e odiosa scampagnata da gita aziendale. Un grande scrittore, David Foster Wallace, ha dedicato un meraviglioso libro al racconto di una crociera di turisti americani nei Caraibi (Una cosa divertente che non farò mai più) in cui l’ironia di Dostoevskij viene rivista e aggiornata.

 

Ecco un racconto che, da solo, una volta letto può riscattare ogni vacanza, darle un senso. Insomma come diceva un tormentone: “Basta poco, che ce vo’?”

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