I bambini e il dolore

La legislazione belga che ha sancito la liceità dell'eutanasia per i minori pone diversi interrogativi di tipo etico e antropologico. Il commento di ROBERTO COLOMBO

Al di là dell’indignazione (sacrosanta) e della ribellione (civilissima) che proviamo di fronte alla legalizzazione dell’eutanasia sui minori in Belgio, resta la questione vera – drammatica – cui le legge di quel paese tenta di dare una risposta sbagliata, inaccettabile. Una risposta che ripugna alla ragione dell’uomo perché, anziché assumere e stare di fronte alla drammatica questione del dolore dei bambini malati – una realtà che non può essere negata – pretende di cancellarla togliendo la vita a chi soffre. Per eliminare il problema inquietante, la domanda sconcertante, si fa fuori chi la vive nella propria carne, la pone attraverso la propria esperienza e quella dei genitori e degli amici che sono la compagnia umana di questi bambini e ragazzi malati. Il loro dolore non è accarezzato, neppure sfiorato: è brutalmente violentato. Una violenza, quella dell’eutanasia pediatrica, sui cui rischia di accanirsi la congiura del silenzio internazionale, proprio mentre sempre più forti si levano le voci contro altre forme di violenze sui minori.

Sin dall’antichità (la Bibbia, con il libro di Giobbe, non fa eccezione), il dolore degli innocenti – e chi più di un bambino può essere chiamato innocente – è sempre stata la grande obiezione contro l’esistenza e la provvidenza di un Dio buono e misericordioso, ma anche contro il senso della vita dell’uomo. Una sfida senza pari, che insieme a quella della morte, raccoglie più di ogni altra il riconoscimento di magna quaestio della filosofia e della teologia. Il grande filosofo francese Paul Ricouer scriveva che l’importante non è tuttavia questo consenso, ma il modo in cui la sfida – perfino l’impotenza, la sconfitta di fronte ad essa – è riconosciuta: come un invito a usare di meno la ragione o una provocazione a ragionare di più, addirittura a ragionare altrimenti? Una sfida infatti è di volta in volta uno scacco per delle sintesi sempre premature, e una provocazione a ragionare di più e altrimenti (cf. P. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993, pp. 7.47). Sintesi premature e pensiero debole che una ragione dal fiato corto e dall’orizzonte cieco ha portato a teorizzare – e adesso, in Belgio, anche a tradurre in legge – correnti di pensiero bioetico cosiddetto “liberale”, che hanno da tempo abbandonato la riflessione antropologica e morale per abbracciare un utilitarismo sfrenato che vede come nemica dell’uomo e della società ogni domanda  ultima sul senso della vita e della realtà, ogni evidenza ed esigenza del cuore dell’uomo che lo costituisce come la sola coscienza del mondo.

Al centro del suo ultimo romanzo, Fëdor Dostoevskij colloca il lungo e drammatico colloquio tra i due fratelli Ivan e Alëša Karamazov. Rivolgendosi al fratello, Ivan spiega perché ha perduto la fede in Dio: dal suo punto di vista è impossibile che un Essere onnipotente e buono permetta la sofferenza dei bambini, degli innocenti. 

«Lo capisci questo, quando un piccolo esserino che non è ancora in grado di capire che cosa gli stanno facendo si percuote il petto straziato con il suo pugno piccino, al freddo e al gelo […] e piange lacrimucce insanguinate, dolci, prive di risentimento al “buon Dio” perché lo difenda? La capisci questa assurdità, amico mio, fratello mio, pio e umile novizio di Dio, tu lo conosci a che scopo è stata creata questa assurdità, a che cosa serve? Senza di essa, dicono, l’uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra, giacché non avrebbe conosciuto il bene e il male.

Ma a che cosa serve conoscere questo benedetto bene e male, se il prezzo da pagare è così alto? Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di quella bambina al suo “buon Dio”?» (I fratelli Karamazov, parte II, libro V, cap. IV). E’ proprio vero: tutto un mondo di discussioni, di dibattiti tra pediatri, psicologi, filosofi, bioeticisti e giuristi non vale  le lacrime di un bambino che soffre per una malattia inguaribile. Di fronte al dolore innocente si può solo mettersi in ginocchio e riconoscere che il destino di quella creatura non è nelle mani né dei medici, né dei suoi genitori, né – tantomeno – dei giudici che saranno chiamati a far applicare questa legge. Il suo destino, come il nostro e quello di ogni uomo e donna sulla terra, è nelle mani di un Altro.

Anche solo il pensiero (per tacere di una seria ipotesi) che la sofferenza di un bambino, un giovanissimo malato possa subire una violenza – e, dunque, la più grave delle ingiustizie – proprio attraverso il tentativo della sua eliminazione con l’eutanasia, sembra non avere attraversato la mente di chi ha promosso e votato la legge belga. Alcuni hanno parlato di machiavellismo bioetico: il fine (chiudere una vicenda, quella sofferenza del bambino e della sua domanda di senso, che tormenta genitori, medici e infermieri) giustificherebbe qualunque mezzo, anche un uso strumentale della medicina al fine di anticipare la morte (eutanasia pediatrica). Ma c’è di più e di più radicale. Senza allargare i suoi orizzonti al Mistero dell’uomo e del mondo, la ragione diventa prigioniera di sé stessa, incapace di uscire a campo aperto, sotto il cielo stellato che riempiva di stupore Kant, e accettare la grande sfida della vita: quella del dolore e della morte. E così – dentro a questa angusta prigione nella quale un breve scorcio di cielo fa capolino tra le sbarre del lucernario – etica e diritto si abbracciano in un amplesso mortale. Questa legge, ancor più di tutte le altre sull’eutanasia, non segna solo la morte di numerosi innocenti, ma anche la morte della stessa bioetica e del biodiritto, così come sono stati coltivati in alcuni ambienti della cultura e della politica europea.

Solo restituendo alla ragione la pienezza del suo orizzonte e alla fede la sua naturale vocazione culturale e sociale potremo tornare ad affrontare le grandi domande sulla vita e sulla morte, sulla felicità e sul dolore, sulla salute e sulla malattia, che bussano alla porta del nostro cuore e della nostra mente e costituiscono la trama di ogni rapporto, la stoffa della professione medica e infermieristica e della cura che un padre e una madre hanno dei propri figli, e il tessuto della convivenza civile.

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