Al lavoro in presenza, un valore per tutti

Chiunque ha bisogno del luogo di lavoro: l’azienda può e deve tornare a essere corpo intermedio capace di svolgere un ruolo sociale per i suoi dipendenti e le loro famiglie

Poco prima dell’estate, ho invitato i membri del mio team (dirigo il marketing per una multinazionale medicale svizzera) a tornare gradualmente in ufficio. Dopo un anno e mezzo di smart working, mi aspettavo un’entusiastica celebrazione di liberazione dal Covid. La reazione è stata invece eufemisticamente tiepida: il 40% dei colleghi ha scelto di continuare il lavoro interamente da casa (la legge lo permette), altri vengono un solo giorno a settimana. Sto cercando di capire cosa bolle in pentola: mi pare che questo sia un nodo cruciale e banalizzato della vita economica. Uno studio di McKinsey dello scorso luglio fornisce dati interessanti.

Innanzitutto, un potenziale iato tra le aspettative dei top managers e quelle dei livelli inferiori di gerarchia aziendale: mentre l’88% dei primi si aspetta un ritorno in ufficio per più di 3 giorni a settimana, con l’ufficio come fulcro primario del lavoro, più del 50% dei secondi si aspetta di lavorare almeno 3 giorni a settimana da casa. La tendenza centripeta è naturalmente ancor più marcata tra i dipendenti delle tech companies, dove smart working e flessibilità di luoghi e orari già in parte esistevano prima del Covid, le nuove mode si diffondono prima e la forza lavoro ha alti livelli di istruzione e attenzione al lifestyle.

Un secondo punto descrive la “lotta interiore” nei lavoratori stessi: l’anelito di flessibilità fa a pugni con l’esperienza quotidiana del lavoro remoto, da molti descritta come una gabbia in cui è difficile scollegarsi dal computer, si rischia di passare intere giornate barricati in casa, i rapporti umani si vanno allentando, la risoluzione di ogni problema (IT!) diventa un’odissea.

Il terzo punto riguarda lo scollamento di appartenenza all’azienda: i tassi di dimissione stanno aumentando (la “Great Attrition” è attesa per il 2023), il 26% dei lavoratori americani è in procinto di cercare un nuovo lavoro e il 40% dei lavoratori globali pensa di lasciare il proprio attuale posto entro l’anno: mettersi in discussione e affrontare nuove sfide è un bene assoluto, ma questi tassi rischiano di essere difficilmente sostenibili per le aziende. Quindi, dove sta la giusta soluzione? Qual è il valore del lavoro in ufficio, per l’azienda e per l’impiegato? Perché un lavoratore dovrebbe scegliere di abbandonare la comodità di casa e ricominciare la vita da pendolare?

Nessuno ha la risposta in tasca, ma, per la mia esperienza, il punto da affrontare è che la employee experience nel medio-lungo termine sempre coincide con la creazione di valore per l’azienda (e dunque per il Sistema-Paese). Si sa che aziende con dipendenti soddisfatti generano flussi di cassa (e dunque valore stimato) 2-3 volte superiori a realtà paragonabili dello stesso settore.

Quindi, partiamo dal bisogno dei lavoratori: sicuramente flessibilità e relax, padronanza del proprio tempo. Questo è immediatamente chiaro, e va preservato. Ma, più in profondità, chiunque ha bisogno del luogo di lavoro, perché il lavoro è un ambito sociale, dove tessere dei rapporti (per il 39% da McKinsey le proprie reti sociali hanno perso di intensità nell’ultimo anno), dove confrontarsi sulla scuola dei figli e sul miglior ristorante di pesce della zona, dove pensare insieme alla strutturazione di un progetto complesso o alla soluzione di un problema che proprio non torna, dove scoprire che esistono altri che sono fatti diversi da te, dove raccogliere notizie su quel che accade nel mondo, dove conoscere quella ragazza o quel ragazzo a cui proporre di uscire (in un articolo del Financial Times di qualche mese fa si diceva che, nel Regno Unito, più dell’11% delle persone ha trovato marito o moglie in ufficio). E perché il livello di esaurimento cresce – e attenzione e produttività conseguentemente calano – quando si è soli per lunghi periodi. L’azienda deve sottolineare questo, nel dialogo con i dipendenti, e creare strumenti perché questa socialità si esprima: è la grande intuizione degli spazi comuni delle tech companies (o, più prosaicamente, dei vecchi Cral nostrani).

L’azienda, in egual misura, ha bisogno come il pane che i propri teams passino tempo insieme e si guardino in faccia: perché la gran parte dei progetti innovativi nasce da un collega che mette il naso in un ufficio e butta lì un’idea del tutto acerba, come uno slogan; perché la diversity (altro tema spesso abusato) porta ricchezza nel guardare un problema da diverse angolature (mentre nei mesi di lockdown, in quei rari momenti di libertà di movimento, la gran parte della gente ha incontrato solo persone con le quali immediatamente si identifica, che fossero i membri di un movimento politico, di un tennis club, o i parrocchiani, con grande danno allo stimolo intellettuale); perché un team lavora meglio che una somma di individualità (si veda l’Italia di Mancini all’Europeo), ma fiducia, collaborazione e affiatamento nascono esperienzialmente da una convivenza, non da un teorema; perché la motivazione di lavorare sodo e a lungo per un’azienda – almeno per i “talenti”, che hanno alternative da vagliare – nasce dal sentirsi parte di un’ambizione unica, che ha potenziale di crescere e di cambiare il mondo; perché, infine, anche il controllo della qualità di un lavoro e della produttività, e l’attività di mentorship e coaching sono molto più efficaci nel rapporto umano.

Spesso cerchiamo di migliorare la vita lavorativa con soluzioni parziali: il mio Outlook ora schedula automaticamente incontri di 25 minuti anziché 30, in modo da lasciare una pausa caffè ogni mezz’ora (gastroenterologi di tutto il mondo, unitevi!), ci ritroviamo intorno al tavolo nel “Virtual Lunch” settimanale, compiliamo questionari delle Risorse umane per proporre la nostra soluzione geniale, che migliorerà esponenzialmente la vita di tutti i lavoratori del mondo. Tutti ottimi tentativi, ma non sufficienti. Niente è come la realtà fisica.

L’azienda deve riproporre al più presto la presenza in ufficio, in una percentuale significativa (almeno 60%), anche se costa di più, in termini di spazi e norme di distanziamento. Deve discutere con i dipendenti del valore di quel tempo insieme, per l’azienda e per se stessi. Deve forse aiutarli anche con dei rimborsi spese. E il Governo deve aiutare le aziende a riportare la gente negli uffici. Imparando dall’esperienza: un paio di giorni di smart working a settimana possono essere piacevoli e produttivi. Nella mia azienda, ad esempio, uno dei giorni settimanali in smart working (lo stesso per tutti, ovviamente) è anche meeting-free (senza riunioni), in modo che ciascuno, da casa, possa veramente concentrarsi sul suo lavoro.

E poi superare il concetto di controllo, da capoufficio a impiegato, focalizzandosi sulla definizione di risultati da raggiungere, in modo da valorizzare la libertà e la creatività del singolo.

Pochi questionari, solo con domande mirate su temi su cui si possa e si voglia veramente agire (la mancanza di consequenzialità è fonte di frustrazione).

L’azienda può e deve tornare ad essere corpo intermedio (come sono state Fiat, Ferrero, Esselunga), capace di svolgere un ruolo sociale per i suoi dipendenti e le loro famiglie e per la zona geografica in cui operano. I dipendenti sono stimolati a dare il massimo perché stanno bene. E stanno bene anche e soprattutto se non perdono tempo, lavorano, acquisiscono competenze sempre nuove, creano qualcosa anche di piccolo, ma utile al mondo.

Non si tratta di far lavorare meno la gente o pretendere meno (il mantra del Work-Life balance), ma di iscrivere il lavoro in un quadro ampio, che ha a che fare con tutta la vita (Il Work-life harmony di Jeff Bezos). Non è cosa facile da realizzare, bisognerà provare, misurare, accettare il fallimento, riprovare. In ogni caso, no-size-fits-all: uomini e aziende sono tutte diverse, ognuno dovrà trovare la sua formula.

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