Il malessere dei giovani, lo sguardo degli adulti

A causa del Covid sono in forte aumento le espressioni di malessere e disagio di giovani e adolescenti. Ecco come gli operatori possono rispondere a questa fragilità

“Il disagio giovanile e adolescenziale oggi, tra cambiamento d’epoca e pandemia”: è il titolo di un webinar in quattro seminari che sta per iniziare, il cui intento è di trattare il tema del forte aumento delle espressioni di malessere nei ragazzi, esploso negli ultimi anni e reso di ancor più viva attualità dalle restrizioni di vita sociale imposte dall’emergenza Covid, ponendo grande attenzione a tutte le differenti dimensioni in gioco, dalla clinica alle relazioni sociali ed educative, dalla famiglia ai servizi per la cura.

Il clima culturale contemporaneo in cui nascono e crescono le nuove generazioni sembra avere un notevole impatto dal punto di vista sia dell’espressione fenomenica dei sintomi portati dai giovani (isolamento, attacco al corpo con disturbi dell’alimentazione, self cutting…), sia delle forme nuove di psicopatologia (doppie diagnosi, quadri inediti di psicosi). Accanto agli indiscussi vantaggi, quali una maggiore possibilità di comunicazione e di relazioni tra le diverse generazioni (Miscioscia), anche attraverso gli strumenti tecnologici utilizzati per mantenersi costantemente connessi, si rilevano aspetti che possono rendere ragione di un pervasivo malessere diffuso tra gli adolescenti e i giovani, che a volte si risolve nel tempo della maturazione e della crescita, altre volte si cristallizza e, laddove trova un terreno vulnerabile, diviene una vera e propria patologia.

Gli elementi della contemporaneità che più espongono a tali rischi e che legano come un filo sotterraneo le diverse situazioni, fino quasi a determinare l’espressione sintomatologica delle patologie nelle nuove generazioni, sono correlati a diversi fattori. In primis, all’influsso di quella che viene definita sinteticamente “società narcisista” (Lasch 1978), caratterizzata dalla pervasiva presenza di modelli identificatori molto elevati, irraggiungibili, che espongono alla paura di non farcela, di non essere adeguati, di non essere apprezzati o non riconosciuti perché non all’altezza delle aspettative di amici o familiari, e quindi alla paura di rimanere soli (Lancini e Cirillo 2018).

In tale contesto, incentrato narcisisticamente sul raggiungimento del successo e sull’approvazione, i ragazzi crescono spesso fragili, con un diffuso stato d’ansia, mai pienamente soddisfatti di sé, alcuni alla continua ricerca di esposizione sui social, altri nascosti e trincerati nei loro spazi mentali e fisici, isolati dal mondo, ma in costante connessione virtuale. Nel contempo, vivono in un’atmosfera diffusa di incertezza in cui emerge la mancanza di speranza nel futuro, un futuro che da promessa – come dice Galimberti – è divenuto minaccia. Oltre a sentimenti di impotenza o di disgregazione, emerge soprattutto la mancanza di senso (nichilismo): la mancanza di “un futuro, come promessa, arresta il desiderio nell’assoluto presente”, afferma Galimberti. Meglio cioè stare bene e gratificarsi oggi, se il domani è senza prospettiva: meglio cercare gratificazione nell’istante, che non dover usare il pensiero critico, il giudizio, la riflessione su di sé e su ciò che si sta facendo, mirando più semplicemente al consumo dell’esperienza gratificante (ad esempio, con le sostanze, e qui si insinua e fa presa la società dei consumi). Questa è un’epoca in cui “l’attività di pensiero sembra essere divenuta una funzione inessenziale e superflua, se non dannosa”, afferma Casoni.

Un operatore, di fronte a considerazioni come queste, sottese a diverse situazioni di malessere accomunate da una diffusa percezione di smarrimento, di incertezza, di fragilità che si presentano sempre più numerose alla sua attenzione, come può positivamente muoversi per accogliere e capire i giovani, con i loro disagi e i loro nuovi bisogni? Che cosa deve cambiare nei servizi, in termini di pensiero e di tempistiche di intervento adeguate, di luoghi meno connotanti, di flessibilità organizzativa, di confidenza con i nuovi mezzi di comunicazione?

Certamente è necessaria una costante integrazione dell’attività psicologica e psichiatrica (che deve acquisire più flessibilità per adattarsi alla realtà dei ragazzi) con le attività di assistenza e riabilitazione, ove gli operatori si confrontano con i giovani, lavorando insieme in una prossimità quotidiana che facilita la comprensione diretta di tanti aspetti di vita sociale e familiare. In alcune situazioni, infatti, l’intervento di tipo concreto e operativo svolto da figure come l’educatore o l’infermiere professionale o il terapista della riabilitazione risulta essere molto efficace nel creare un’alleanza terapeutica. Proprio con ragazzi impulsivi, che cercano gratificazione immediata e che faticano a mettersi in un’ottica di riflessione su di sé e sul proprio agire, sembra offrire maggiori opportunità un metodo che privilegia il “fare insieme”, più adatto ad aprire una strada di comunicazione che altrimenti appare sbarrata.

Un’esperienza in atto, ad esempio, consiste nel lavorare in gruppo con i ragazzi in collegamento con altre iniziative e spazi di aggregazione tramite piattaforme virtuali, creando servizi di pubblica utilità. Tali esperienze e infinite altre, che nascono dalla creatività di servizi capaci di ascoltare e interloquire con il mondo dei giovani, favoriscono il superamento dello stigma (tema importante da affrontare, soprattutto nei giovani all’esordio di malattia), la valorizzazione e il riconoscimento della persona, aiutando i ragazzi a non sentirsi definiti dalla propria diagnosi, emarginati, persi e trincerati dentro le mura del proprio malessere.

Gli operatori diventano un punto di ascolto sicuro e di mediazione con la realtà circostante, così che i sintomi e le fragilità non finiscano per definire la realtà globale della persona. Per questo, di fronte ai bisogni che emergono prepotenti nei ragazzi, pensiamo che oggi agli operatori tutti sia chiesto qualcosa in più: essere consapevoli del doppio ruolo che essi svolgono, di “terapisti” e di “adulti”. I ragazzi guardano agli adulti, qui e ora, affamati di testimonianze di vita, di modelli identificatori significativi, portatori di speranza e di senso, non solo ai modelli diffusi dai media e dalla cultura contemporanea. Se vogliamo contribuire a superare l’epoca delle “passioni tristi” e del nichilismo dobbiamo ognuno assumerci responsabilmente la consapevolezza di essere guardati dai giovani, che si aspettano di avere con noi una relazione autentica e significativa.

Ma ascoltare, capire, prendersi cura dei giovani non è un compito esaurito dall’intervento clinico, anzi impone di chiamare in causa i legami costitutivi della persona, di coinvolgere l’adulto dentro la famiglia e le relazioni educative, ambiti attraversati da un’attuale ineludibile crisi: di questo e di altro vorremmo discutere nei seminari del corso successivi al primo, che si terrà lunedì 19 aprile.

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