Hamas non vuole il disarmo completo, Netanyahu dice no al ritiro totale dell’IDF da Gaza. Tra le incognite della pace la divisione dei palestinesi
Le centinaia di migliaia di palestinesi che dopo il cessate il fuoco stanno tornando là dove c’erano le loro case sono l’emblema dell’accordo che ha messo fine ai bombardamenti israeliani. Le armi, grazie a Trump, non sparano più, e meno male, e la liberazione degli ostaggi dovrebbe essere imminente, ma le conseguenze della guerra sono tutte nella sofferenza della gente incolonnata per l’ennesimo esodo, per tornare in luoghi dove sotto le macerie c’è un vero e proprio cimitero.
La fine delle ostilità a Gaza, però, spiega Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, non significa pace e sul cammino per risolvere la questione palestinese ci sono molti ostacoli: il disarmo che Hamas non vuole completo, il ritiro dell’IDF che Netanyahu non vuole, le divisioni interne ai palestinesi, l’atteggiamento coloniale dell’Occidente che punta su Blair anche se per tutti nell’area è l’uomo della guerra in Iraq.
Le armi tacciono e 300mila palestinesi si sono messi in moto per tornare a quello che resta delle loro case. Il piano che cosa prevede per loro?
Mi sembra che ancora una volta ci sia un distacco dalla realtà da parte dei decisori. Come se queste persone non contassero veramente nulla e fossero solo delle pedine sullo scacchiere della politica internazionale. Si parla di questioni immobiliari, ma non si pensa che questa è una storia di persone, di un popolo che torna alle sue case per constatare che non ci sono più. I messaggi che arrivano da Gaza sono di un dolore infinito. I più giovani vengono mandati a esplorare cosa è successo alle abitazioni, mentre i vecchi, i bambini, le donne incinte rimangono ancora sotto le tende nel sud, ma quello che trovano è nulla.
Qual è la realtà di Gaza oggi?
Chi torna trova quartieri spianati e cadaveri, solo in un giorno ne sono stati contati 130. Una triste contabilità che, come a gennaio, ha fatto schizzare il numero delle vittime e ponendo una domanda a chi parla di questioni immobiliari: “Lo sapete che là sotto c’è un cimitero?”. Come si possono costruire case mandando bulldozer a togliere le macerie, sapendo che insieme ai detriti si raccolgono salme?
Il cessate il fuoco, che pure in queste condizioni è già un gran risultato, apre a una pace che è ancora fragilissima: Hamas, per esempio, si oppone a un disarmo completo, vuole consegnare le armi alle forze palestinesi e far confluire lì i suoi miliziani. Già su questo punto può cadere tutto?
Dal punto di vista storico-politico in diverse occasioni ci sono state milizie, anche considerate terroristiche, che poi sono state inglobate nelle forze regolari di polizia o di sicurezza. È una pratica seguita in tutte le parti del mondo, ma quando si tratta di Israele e Palestina allora si fa un’eccezione. Hamas si considera parte del tessuto palestinese e pone questo problema: un problema serissimo, perché è ovvio che rischia di far saltare tutto. Dobbiamo anche pensare, però, che chi sta imponendo questa pace è l’altra parte in causa, quella che finora ha compiuto un genocidio, che ha distrutto il 90% delle case, ammazzato almeno 70mila persone.
Quali altri punti del piano Trump devono essere chiariti?
I 20 punti di Trump sono solo una parte del piano che si sostanzierà da ora in poi. E non è detto che non salti. Un elemento su cui si ragiona poco è il ritiro delle truppe israeliane da Gaza. Netanyahu ha già detto che non si ritirerà. Le due parti in causa, Hamas e Israele, stanno ponendo delle condizioni a un piano che era troppo vago e non diceva nulla su alcuni punti determinanti: il disarmo di Hamas e il ritiro delle truppe israeliane.
Cosa si sta muovendo nel mondo palestinese? Chi sta prevalendo in Hamas e chi farà parte dei tecnocrati che gestiranno la fase della ricostruzione?
I tecnocrati ci sono nel mondo palestinese, alcuni vivono nei territori occupati, altri fanno parte della diaspora: è un popolo fatto anche di seri professionisti, di persone che lavorano per le organizzazioni internazionali, nei Paesi della regione. Per quanto riguarda Hamas le brigate al-Qassam si sono molto indebolite in questi due anni: sono stati uccisi Yahya Sinwar e Mohammed Deif, i vertici delle brigate ma anche i comandanti locali. E il portavoce Abu Obaida. Hanno subito un fortissimo indebolimento a cui fa da contrattare l’emergere di nuovo dell’ala politica, le persone contro le quali Israele aveva lanciato 12 missili il 9 settembre.
Come si pone questa nuova ala politica di Hamas?

Usa toni diversi che ricordano l’Hamas dei primi decenni. Khalil al-Hayya, capo negoziatore, ha sottolineato, per esempio, come la sua sofferenza per il figlio ucciso nell’attacco missilistico del 9 settembre fa parte della sofferenza di tutto il popolo palestinese, che ha visto uccidere i suoi figli. C’è una retorica politica diversa da quella di Sinwar, che si fonda sulla resistenza e che fa emergere la parte pragmatica di Hamas.
E le altre componenti del mondo palestinese come sono messe e che ruolo possono avere da ora in poi?
L’ANP e l’OLP (legittima rappresentante del popolo palestinese per la legalità internazionale di cui però Hamas e Jihad islamica non fanno parte) non hanno avuto nessun ruolo: quando si deve raggiungere un cessate il fuoco non si può chiamare Abu Mazen, che non controlla forze che dispongono di armi, bisogna parlare con Hamas. Ora bisognerà vedere come si raccorderanno la parte che mondo occidentale e mondo arabo riconoscono, cioè i palestinesi che stanno a Ramallah, e l’altra parte, che sta a Gaza.
Si è parlato di Marwan Barghouti come possibile nuovo leader. Potrà giocare un ruolo nel futuro politico dei palestinesi?
Israele lo ha lasciato nel carcere dove si trova da 20 anni, non tanto perché non vuole che medi tra l’una e l’altra parte dei palestinesi, quanto perché è contro Abu Mazen. Anche se lo facessero uscire la situazione rimarrebbe comunque molto complessa.
Trump sarà in Egitto per la firma dell’accordo di pace e incontrerà diversi leader nazionali, non solo del Medio Oriente. Questa intesa come può cambiare i rapporti con i Paesi dell’area?
Intanto bisogna chiamarla Asia occidentale o Asia sudoccidentale e non solo perché la dizione Medio Oriente è estremamente coloniale. È Medio Oriente rispetto a cosa, alle ex capitali coloniali? In questa area non ci sono solamente il Qatar, l’Arabia Saudita, la Turchia, ma anche una parte che non è Asia occidentale, di cui fanno parte il Pakistan, l’Indonesia. Quindi ci sono l’Egitto e la Giordania. Una regione composita in cui gli USA hanno parecchi problemi.
Quali?
In questi due anni abbiamo assistito allo schiacciamento totale delle amministrazioni statunitensi su Israele, tanto da far fare parte del gabinetto di guerra di Netanyahu. Il fatto che si siano messi in gioco Paesi come Pakistan e Indonesia e l’Organizzazione per la cooperazione islamica significa che c’è un pezzo di pianeta estremamente composito con cui bisogna avere a che fare, che ha posto problemi serissimi agli USA nelle riunioni a latere dell’assemblea generale dell’ONU. Questi Paesi non vogliono più pagare la ricostruzione dopo le guerre che Israele ha scatenato su Gaza, né pagare il prezzo di una instabilità regionale che Tel Aviv ha creato in questi ultimi decenni.
Queste istanze come interrogano gli USA?
Bisogna capire come ricomporre una regione che paga ancora lo scotto dell’invasione anglo-americana dell’Iraq. Il fatto di mettere Blair a capo del board che si occuperà di Gaza è una follia che solo Trump poteva pensare. E l’Occidente gli va appresso. L’ex primo ministro britannico è proprio quello dell’invasione anglo-americana dell’Iraq. Pensare di mettergli in mano Gaza come governatore, peraltro in un pezzo di regione che ha avuto il mandato coloniale britannico, vuol dire pensare ancora di essere fermi a un secolo fa e di dover gestire la regione secondo i dettami di un colonialismo che quell’area non la conosce nemmeno.
(Paolo Rossetti)
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