L’accordo su Gaza è un grande risultato, ma le incognite sono molte. Trump lo ha voluto e ora dovrà sostenerlo. Da superare c’è l’odio Israele-Palestina
Dopo gli accordi di Oslo è la prima volta che si tenta di affrontare la questione palestinese nella sua complessità. E come allora c’è sempre il pericolo che qualcosa vada storto per colpa dell’ala militare di Hamas, dei coloni, degli eccessi dei partiti nazionalisti israeliani (contrari a chiudere il conflitto) o dei ripensamenti di Trump.
Intanto, però, spiega Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, con l’accordo tra Hamas e Israele voluto dal presidente USA si è raggiunto un grande risultato, che porrà fine al massacro che ha segnato Gaza in questi ultimi due anni. Il garante dell’intesa alla fine è sempre il capo della Casa Bianca, che ha messo sotto pressione Netanyahu, facendogli digerire un’intesa che cambia i suoi piani di annessione dei territori palestinesi e di guerra a oltranza ad Hamas.
Il vero ostacolo al processo di pace e ai due Stati che tutto il mondo auspica sono, però, i due popoli interessati, quello israeliano e quello palestinese: si odiano e questo è il primo ostacolo a una convivenza pacifica. I palestinesi, intanto, cercano una nuova classe dirigente, mentre Israele potrebbe vedere cambiare la composizione del suo governo.
Qual è la reale portata dell’accordo per la fine della guerra a Gaza?
È effettivamente un grande risultato, la prima volta dopo gli accordi di Oslo che c’è qualcosa di concreto per cambiare passo in Medio Oriente. Il processo di Oslo fallì, speriamo che non succeda anche in questo caso. L’accordo è un punto di partenza, non di arrivo. E non sappiamo ancora quale sia l’obiettivo finale, se “solo” evitare il massacro di Gaza, comunque importantissimo, se scambiare i prigionieri, iniziare una ricostruzione pluridecennale, oppure fermare Israele in Cisgiordania. Trump ha detto alla Fox che in questo processo di pace vuole inserire anche l’Iran.
Perché ne va non solo di Gaza, ma anche di tutto il Medio Oriente?
I 20 punti del piano puntano espressamente alla fine del conflitto a Gaza. Se funzionerà è implicito che si dovrà parlare anche del futuro della Cisgiordania e di una lunga trattativa per il riconoscimento di uno Stato palestinese. Tutto il mondo, dal Nord al Sud, è d’accordo sul fatto che questo conflitto debba essere risolto applicando la teoria dei due Stati. Credo che possa essere questo, poi, l’obiettivo finale.
Gli israeliani sono stati costretti ad accettare l’accordo? Non ne sono convinti?
Se escludiamo Gaza, qualcosa in Cisgiordania e i familiari degli ostaggi a Tel Aviv, non è che ci siano state chissà quali manifestazioni di giubilo. Anche quando nel 1993 furono annunciati gli accordi di Oslo a Gerusalemme c’era silenzio totale, perché in realtà l’ostacolo principale alla soluzione del problema è l’odio fra i due popoli: la paura degli israeliani di uno Stato palestinese o il sogno dei palestinesi di liberare tutta la Palestina.
La prima fase dell’accordo riguarda la liberazione degli ostaggi e la scarcerazione di 250 detenuti palestinesi con condanne pesanti, oltre che di 1.700 altri reclusi. Ma gli altri temi?
Hamas ha subito moltissime pressioni, però credo che non avrebbe firmato senza un accordo più ampio rispetto allo scambio dei prigionieri. Gli israeliani hanno creato una fascia di sicurezza all’interno di Gaza, al confine con Israele: questo è il tema in discussione, se Israele si ritira completamente o mantiene questa fascia di sicurezza riducendo sostanzialmente la dimensione territoriale della Striscia.
Penso che Hamas abbia accettato perché all’interno dell’accordo c’è il ritiro dell’esercito israeliano, contemporaneo al disarmo di Hamas con la consegna delle armi alla frontiera egiziana, dove verranno accolti i miliziani che si ritirano. E poi qualcuno dovrà governare a Gaza.
Quali saranno le priorità nella gestione della Striscia?

Gaza è un problema non solo perché è stata distrutta, ma perché nel frattempo sono nate le “mafie”. I clan, le tribù, sono sempre state presenti nel mondo arabo, bisognerà creare una forza internazionale di pace capace di garantire anche la stabilità, la sicurezza dentro Gaza senza la quale poi non si può parlare di ricostruzione. Quindi dovrebbe entrare in funzione questa specie di governo guidato da Tony Blair, con anche ministri dell’Autorità nazionale palestinese (ANP).
Gli israeliani hanno dato garanzie che non torneranno a combattere?
Sono sotto la pressione di Trump, che è molto determinato. Sogna il Nobel e il grande business della ricostruzione.
Come si ricostruisce una leadership palestinese? Marwan Barghouti, leader della seconda intifada, ammesso che venga scarcerato, può assumere la guida della nuova ANP?
Ci vorranno leader capaci di una visione sul futuro, e per quanto riguarda Barghouti, dopo anni di carcere non sappiamo in che condizioni sia. Adesso l’ANP di Ramallah non ha voce in capitolo né nello scambio dei prigionieri, né nella ricostruzione o nel governo di tecnici che dovrebbe avviarla. Il suo compito ora è che Abu Mazen si tolga di mezzo e che nasca una nuova classe dirigente con il consenso popolare. È responsabilità dei palestinesi proporre una leadership credibile.
Smotrich dice che bisognerebbe continuare la guerra, le opposizioni invece sono favorevoli all’accordo e Gantz addirittura tesse le lodi di Netanyahu. Il governo cambierà composizione? Nel Paese si aprirà uno scontro tra visioni diverse dell’accordo ma anche del futuro di Israele?
Sicuramente adesso si aprirà un dibattito interno ad Israele: la speranza è che Smotrich e Ben-Gvir se ne vadano e che possa nascere un governo con una maggioranza diversa, anche perché le elezioni sono previste per la fine del 2026, quindi fra più di un anno. Con il sistema proporzionale Netanyahu può ancora vincerle. Tuttavia i partiti nazionalisti e ultra religiosi potrebbero restare al governo per non perdere il loro potere, boicottando nel frattempo il processo di pace.
Hamas senza armi che fine farà? Resterà come partito politico o scomparirà per rinascere sotto un’altra forma?
Il sogno di molti è che scompaia, ma non succederà. L’anno scorso il portavoce delle forze armate israeliane si dovette dimettere perché dichiarò che non è possibile sradicare Hamas, perché non è solamente un’organizzazione militare, ma è anche un’idea. Se Hamas si trasforma, se prevale l’ala politica su quella militare, se come l’ANP riconosce a Israele il diritto di esistere, allora può restare sulla scena.
D’altra parte l’ala militare, giocando sullo scetticismo dei palestinesi, potrebbe anche trovare consenso e continuare ad agire con atti terroristici. Allo stesso modo gli israeliani rischiano che i coloni creino avamposti e colonie, che aggrediscano i palestinesi cercando di fermare il processo di pace.
I Paesi arabi che ruolo avranno? Hamas spinge perché l’autorità di controllo internazionale che dovrebbe gestire la transizione sia almeno a guida araba. Potrebbe essere così?
Egitto, Qatar e Turchia hanno avuto un ruolo fondamentale nelle trattative, ed è necessario che i Paesi arabi lo abbiano anche nella ricostruzione. Tajani ha detto che l’Italia è pronta a inviare suoi reparti per garantire la sicurezza, in realtà è un compito che sarà degli arabi.
C’è ancora, comunque, chi vorrebbe far saltare il processo di pace. A che pretesto può aggrapparsi?
Credo che l’unica speranza di quelli che vogliono far saltare il processo di pace sia che Trump si stanchi, si disinteressi di queste vicende o addirittura cambi idea.
(Paolo Rossetti)
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