L'accordo raggiunto da Usa e Ue sui dazi sembra favorire un Paese come la Germania, mentre non conviene a Italia e Francia
Donald Trump e Ursula von der Leyen ieri sera dalla Scozia hanno annunciato l’accordo commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea. L’accordo, rispettando le attese degli ultimi giorni, impone all’Europa un dazio del 15% su tutte le merci esportate verso gli Stati Uniti con l’esclusione dei medicinali, dell’acciaio e dell’alluminio che invece continueranno a essere soggetti a dazi più alti. Con l’annuncio viene meno il rischio di un dazio universale del 30% che sarebbe stato efficace dal primo agosto.
Fino a qualche settimana fa l’Europa sperava in un dazio del 10% sulla scorta di quanto ottenuto dal Regno Unito. All’Europa è andata invece peggio, perché al dazio di ieri si deve sommare la svalutazione del dollaro contro l’euro degli ultimi mesi che è stata superiore a quella della sterlina. Rispetto al peggiore degli scenari, il non accordo, si può quindi tirare un respiro di sollievo, ma fino a qualche settimana fa l’Europa sperava nel 10% ottenuto dagli inglesi.
Il Primo ministro italiano Giorgia Meloni, dopo l’annuncio, ha dichiarato di considerare l’accordo positivo, ma di volere aspettare i dettagli per esprimere un giudizio. È una prudenza inevitabile, perché proprio in questi giorni si scopre che su alcuni punti importanti dell’accordo tra Giappone e Stati Uniti ci sono interpretazioni diverse a Washington e Tokyo.
A valle dell’annuncio di ieri, Trump ha spiegato che l’Europa si è impegnata a comprare 750 miliardi di dollari in beni energetici, a investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e, infine, a comprare “vaste quantità di equipaggiamento militare“. Questi numeri sono la contropartita con cui l’Europa si impegna a ribilanciare lo squilibrio commerciale.
Ieri, von der Leyen spiegava che il punto di partenza delle trattative era il surplus commerciale europeo e il deficit americano e che occorreva un ribilanciamento. Per ribilanciare i commerci serve che gli europei comprino più beni dall’America e in questa ovvietà sta tutta la questione, perché cosa comprare e in che quantità può avere conseguenze molto diverse per i singoli Paesi membri.
È chiaro, per esempio, che un Paese che ha un enorme parco nucleare, come la Francia, comprerà meno gas di chi non ce l’ha, come l’Italia, e che un Paese che può sussidiare la bolletta energetica delle proprie imprese, come la Germania, può schermare la propria economia da acquisti di gas a prezzi elevati.
Ci sono Paesi membri che hanno un’industria della difesa rilevante anche su scala globale, come la Francia, che non possono essere contenti che l’Europa ribilanci il commercio comprando armi americane. Questo secondo aspetto interroga anche le ambizioni strategiche europee.
La rigidità americana su acciaio, alluminio, medicinali e chip risponde all’esigenza di essere indipendenti su settori strategici in un mondo in cui le relazioni geopolitiche si complicano e nessuno può più essere certo di trovare sempre tutto “sui mercati”. L’autonomia strategica europea non può esistere, tanto più se i conflitti non cessano, se le armi arrivano da un Paese terzo per quanto “alleato”.
Ieri Trump, prima dell’incontro, spiegava ai giornalisti di aver chiesto all’Europa due cose: che fermasse gli impianti eolici e che limitasse i flussi migratori in entrata. Le pale eoliche, secondo Trump, sono “costose”, non si riciclano, “rovinano il paesaggio”, “uccidono gli uccelli” e “sono tutte cinesi”. L’America non esporta turbine eoliche e nemmeno terre rare e magneti o pannelli solari e inverter; queste sono tutte cose che esporta la Cina. Ieri Trump e von der Leyen hanno dichiarato che questo accordo “ci avvicina”; il corollario di questo avvicinamento è l’allontanamento dell’Europa dalla Cina.
Il grande vincitore dell’accordo di ieri è la Germania di Merz, che ottiene dazi su cui la propria industria automobilistica può lavorare e che ha i soldi per comprare armi americane. È lo stesso Merz che in campagna elettorale bollava l’eolico come una tecnologia di transizione e brutta, che sarebbe stata alla fine discontinuata; esattamente la posizione di Trump contro una tecnologia che ha tra i tanti difetti quella di essere “cinese”; un aggettivo che si può usare per tutta l’energy transition europea.
Per le esportazioni italiane, pensiamo al vino, sarà invece difficile assorbire il 15%. Dell’autonomia strategica europea, come si diceva, rimane pochissimo. Non si capisce come Bruxelles possa ambire a un ruolo di leadership globale dipendendo da altri per energia e armamenti.
All’Italia rimane anche il conto energetico da pagare non avendo né il nucleare, né una geografia favorevole alle rinnovabili. Paga dazio anche l’industria bellica francese seguita a stretto giro da quella italiana. L’Italia non potrà rifarsi esportando auto perché, come noto, l’industria automotive italiana è ai minimi di sempre.
Il commento a caldo di Giorgia Meloni che vuole aspettare i dettagli sembra nascondere una verità che non si può dire. L’accordo di ieri seppellisce i sogni di indipendenza europea e ricade, negli oneri, sull’Italia molto più che su altri Paesi membri. A differenza della Spagna di Sánchez, Roma ha rinunciato a ritagliarsi un’autonomia geopolitica nei rapporti con la Cina, forse sperando in un trattamento speciale da Washington.
La scommessa sulla Commissione von der Leyen 2 non ha pagato. L’accordo commerciale di ieri firmato dalla presidente della Commissione europea salva la Germania e lascia il conto da pagare all’Italia.
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