Gli adolescenti spesso definiti problematici hanno bisogno di una presenza adulta diversa. L'autore ne parlerà oggi al Meeting
Oggi si parla tanto di adolescenti, ma per lo più se ne parla definendoli “problematici”, “diversi” o “incomprensibili”. A me pare che siamo noi adulti incapaci di vederli, di “ri-conoscerli”. Troppo spesso guardiamo a ciò che “fanno” come espressione di una “patologia”, e invochiamo varie statistiche per dimostrare che sono “malati”. Ciò in realtà ci toglie l’impegno di ascoltare e di capire. Siamo troppo spesso noi adulti che, per non affrontare l’umano, lo riduciamo a suoi ipotetici antecedenti biologici o psicologici, per dirla alla Giussani, costruendoci un alibi per non ascoltarli.
Una professoressa tempo fa mi raccontò che una sua allieva delle scuole medie, in un tema in classe, aveva scritto che i suoi genitori si stavano separando e che lei era molto triste e pensava al suicidio. Dopo averne parlato con la sua preside, la professoressa, dietro indicazione della stessa preside, invitò la ragazza a recarsi da uno psicologo. A mio parere, questa ragazza, in un colpo solo, non è stata ascoltata da nessuno e si è trovata addosso il marchio di “malata”.
In un bellissimo recente numero della rivista Vita, Matteo Lancini, responsabile del Minotauro di Milano, ha esordito nella sua intervista affermando che l’unica vera forma di prevenzione del disagio degli adolescenti è la relazione tra adulti e ragazzi.
Le due questioni che potremmo porci sono: che cosa è questo “disagio” che vediamo davanti a noi? Come si è rotta la relazione tra adulti e ragazzi?
Partiamo dalla seconda questione. Si è rotta la relazione tra adulti e ragazzi perché i veri fragili siamo noi adulti, che non siamo più capaci di stare davanti a nostro figlio come altro da noi, di stare davanti anche al suo vuoto, quando accade all’angoscia, al suo malessere. Al posto di essere noi adulti a proteggere i ragazzi, paradossalmente sono loro che spesso proteggono noi e lo fanno perché sanno che noi non reggeremmo la loro sofferenza. Mi vengono in mente i ragazzi o le ragazze che si procurano tagli sul corpo e poi li nascondono.
Ma cosa è questo “disagio” di cui parliamo? Certo, tutte le statistiche ci dicono che sono aumentati gli accessi ai Pronti Soccorsi o le richieste di cura nelle Neuropsichiatrie infantili, ma, queste statistiche non ci dicono nulla rispetto alla natura di ciò che abbiamo davanti.
Forse dobbiamo accettare il fatto che noi non abbiamo in mano la soluzione, però possiamo stare a fianco del dolore e davanti al pensiero del suicidio possiamo parlare del suicidio, non tirarci indietro. Non definire la malattia come se fosse quella che determina il ragazzo, perché non è così, ma accogliere il dolore e la sua domanda.
In questa epoca accade che noi abbiamo bisogno che il figlio sia esattamente quello che noi vogliamo che sia, così da non sentirci noi adulti dei falliti. Il mandato che a questi Millennials diamo è pertanto quello di essere ciò che noi vogliamo che loro siano. Per un po’ tengono, poi potremmo non stupirci se e quando ci picchiano o ci sfasciano la casa.
Ci si potrebbe allora chiedere se siamo dinanzi a qualcosa di patologico o a qualcosa che ha a che fare con l’ontologia.
Vorrei porre due riflessioni: la prima è che non possiamo valutare quanto accade con i nostri soli modelli psicologici, quelli che sinora abbiamo utilizzato; la seconda è che per affrontare tutto questo, abbiamo bisogno di affermare con chiarezza che l’urgenza dinanzi alla quale siamo non è sanitaria, non è educativa, ma è culturale.
Quanto vediamo accadere nei nostri adolescenti è l’espressione di un “io” che sembra dormiente. Diciamolo meglio: di un “io” che ha bisogno di un incontro relazionale vero che lo evochi. Mi vengono in mente Leopardi o Levinas per i quali il vuoto o l’angoscia non erano segni di un di-meno, ma spie della nostra esperienza originaria. Dobbiamo fare in modo che questa esperienza sia evocata.
Mi viene da concludere con questa breve sintesi: l’io non è riducibile a nessun suo antecedente, neppure ad una ipotetica malattia che non c’è, semmai l’io ha bisogno di essere evocato nell’incontro con un fascino che provochi un sussulto tale da farlo emergere.
Credo che noi adulti non dovremmo farci interrogare da queste domande degli adolescenti, espresse benissimo dal rapper Marracash: “Cento cose, mi tengo in moto,/ Riempio il tempo e non colmo il vuoto”. E tornare a quello che recentemente, in un suo intervento a Seveso, ci ricordava Julián Carrón, a partire da un dialogo tra Luigi Giussani e Giovanni Testori: “… La ripresa di una persona passa dall’imbattersi in una presenza diversa, non solitaria, che può fare allora da reagente, da catalizzatore delle energie ormai latitanti’”.
Mi sembra doveroso soffermarmi un istante sull’aggettivo utilizzato da Giussani: “presenza … non solitaria”. Questo aggettivo, “non solitaria”, ci richiama a quanto detto in precedenza e cioè che l’attuale emergenza è culturale: abbiamo bisogno non tanto o non soltanto di un uomo od un genitore buono, ma di ricostruire un contesto culturale, umano, relazionale, capace di rischiare presenze e paternità nuove, capaci di ascoltare, mettersi in gioco, reggere il dolore e soprattutto capace di dialogare con l’altro con un giudizio senza biasimo.
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