Questa è una storia di caduta e ripresa, di morte (sportiva) e resurrezione (agonistica). Parliamo dei Chicago Bulls 2012-13. C’è stato un tempo in cui questa squadra poteva vantare fra le sue fila il giocatore più forte di tutti. E attorno a lui una squadra costruita con sapienza, aggiungendo un pezzo alla volta, senza fretta, fino a quando l’alchimia giusta, l’equilibrio perfetto consentì di aprire l’era delle grandi vittorie. Una squadra capace di vincere 6 titoli in 8 anni, facendo registrare nell’anno del Signore il più alto numero di vittorie in regular season: 72 su 82 partite complessive. Numeri mostruosi. Numeri che difficilmente saranno replicati. Lo sanno bene i tifosi dei “Tori”: dalla fine dell’era-Jordan nessun altro successo ha coronato gli sforzi e le decisioni della società. E’ chiaro perché: dalla fine degli anni ’90 non si è più visto il nome, l’eroe intorno a cui ricostruire una squadra minimamente paragonabile a quella dei fasti antichi. Ma la sorte è venuta incontro ai tentennamenti di Paxson & company regalando alla dirigenza dei Bulls uno dei più grandi talenti degli ultimi anni: la Draft Lottery del 2008 ha infatti permesso di mettere sotto contratto una guardia esplosiva e micidiale, destinata a diventare il più giovane MVP della storia, Derrick Rose. Un eroe solitario non basta però per vincere. E’ necessario un grande allenatore che orchestri la squadra, che organizzi il lavoro, che scelga i comprimari, dia i compiti e guidi il gruppo. Ed ecco che se negli anni ’90 i Bulls erano guidati da coach zen, Phil Jackson, il più vincente della storia e forse il più grande fra gli allenatori, da tre anni ormai la panchina è saldamente in mano al maestro dell’organizzazione e della difesa, Tom Thibodeau. Risultato: per due anni di fila i Bulls vincono la regular season, ma devono arretrare due volte di fronte alla squadra più forte, i Miami Heat di Lebron James, Dwyane Wade e Chris Bosh. Lo scorso anno Chicago arriva ai playoff con un considerevole entusiasmo, pronta a dare ancora battaglia agli Heat. Ma nello sport, come nella vita, l’imprevisto è dietro l’angolo. E può essere molto doloroso. Il giovane Rose, superstella e leader della squadra, si infortuna nei minuti finali della prima partita con Philadelphia. Ed è una tragedia: “torn ACL”, ovvero rottura del crociato anteriore. Prognosi: dagli otto ai dodici mesi per il recupero. Una botta tremenda. Oggi è passato più di un anno da quel momento, che ha segnato le sorti della squadra, uscita poi al primo turno dei playoffs. Già in ottobre le domande dei giornalisti hanno iniziato a infastidire coach Thibodeau, “Thibs” per i suoi giocatori: “Arriverete ai playoff? Come giocherete senza Rose? Non vi sentite più deboli?” La risposta di Thibs è sempre la stessa: “We have more than enough to win”. Risolini, sguardi di compatimento, e analisi che impietose prevedevano un ingresso ai playoff per il rotto della cuffia. I fatti danno ragione a Thibodeau. I Bulls arrivano ai play-off molto meglio delle previsioni, quinti a est, con alcune big victories durante la regular: New York strapazzata più volte, Boston sconfitta anche in trasferta, ma soprattutto Miami interrotta dopo 27 vittorie consecutive. La particolarità della vittoria con Miami va sottolineata, perché ottenuta senza Rose, ovviamente, ma soprattutto senza l’anima, il leader emozionale, il capo-guerriero della squadra: Joakim Noah, uno dei giocatori più sgraziati, ma allo stesso tempo uno dei più forti difensori della lega. Chicago lotta per tutta la stagione con diversi infortuni, oltre all’assenza di Rose. E arriva alla sfida del primo turno contro i Brooklyn Nets con diversi interrogativi: Hamilton è troppo fragile e si rompe sempre, Hinrich ha un polpaccio malridotto, Gibson si è fatto male a un ginocchio e ha perso diverse partite a fine-stagione, e Noah è ancora preda della fascite plantare, tanto da pensare di non essere in grado di scendere in campo fino al giorno prima dell’inizio della post-season. Ma soprattutto: che fine ha fatto Rose? E’ da marzo che i medici dicono che può giocare, e da allora si allena con tutti gli altri. Ma di entrare in campo non se ne parla. Le discussioni sui giornali, le suppliche e le critiche feroci dei tifosi non cambiano niente: Rose non gioca e non giocherà neanche il primo turno dei playoff. Intanto i suoi compagni tirano la carretta a dispetto di una serie di infortuni memorabile. I Bulls partono male, perdendo di 17 punti a Brooklyn. La seconda va molto meglio, e Brooklyn è costretta a capitolare in casa, perdendo così il fattore-campo nella serie. La terza gara segna il vantaggio 2-1 per Chicago. La quarta gara è a dire poco epica: a poco più di tre minuti dalla fine i Bulls sono sotto di 14 punti. Thibodeau getta nella mischia il giocatore più imprevedibile, Nate Robinson (“Nate the great” per gli amici) e ottiene l’impensabile. Pareggio e tre tempi supplementari decretano il 3-1 per Chicago. E’ la partita dell’anno, vinta . E i Bulls sembrano arrivati: basta una vittoria. Ma i Nets non ci stanno e infilano due vittorie consecutive, portando la serie sul 3-3. L’ultima partita sarà decisiva. Da notare che i Bulls sono costretti a inventarsi un nuovo quintetto di partenza per gara 6, quintetto che vede impegnati Robinson e Belinelli come guardie (i titolari a inizio stagione dovevano essere Hamilton e Hinrich, in attesa di Rose), Butler al posto di Luol Deng, il giocatore più impiegato come minutaggio in tutta la lega e primo realizzatore della squadra (“the glue”, “la colla” della squadra, come dice Thibs), Boozer e Noah. Deng non gioca perché fortemente influenzato, come pure Gibson e Robinson, i quali però riescono a giocare, stringendo i denti (Robinson usufruirà due volte di un secchio per vomitare a bordo-campo, e nel frattempo segnando una ventina di punti, emulando la famosa gara di Michael Jordan nei playoff durante la quale vomitò e segnò la miseria di 38 punti). I Bulls perdono in casa di soli tre punti. Si vola a Brooklyn. Il tifoso spera:
Beh, almeno Deng lo recuperiamo… E invece no! Il motivo è difficile da credere. L’influenza di Deng è peggio di quello che sembrava, si teme la meningite. Nella notte viene portato al pronto soccorso, dove gli viene prelevato del liquido spinale per controlli. Risultato: Deng è fuori per alcuni giorni, a fare compagnia Rose e Hinrich. Gara 7 pare segnata. Ma ancora una volta la squadra letteralmente risorge, e vince, grazie al grande apporto delle seconde linee, e in particolare di Marco Belinelli, che segna 24 punti, e dell’incredibile, monumentale apporto dell’anima della squadra, Joakim Noah, che infila 24 punti, prende 14 rimbalzi e distribuisce ben 6 stoppate agli avversari (5 al centro di Brooklyn, Brook Lopez). Tifosi in delirio, e con un solo rammarico: si dovrà andare a giocare a Miami, contro i campioni in carica, senza i titolari. Deng infatti si è ormai stabilito nel pronto soccorso vicino a casa, Hinrich ha appena tolto la scarpa medica e barcolla, Rose non è confidente, non si fida, dice che ha perso la memoria muscolare di alcuni movimenti che non gli vengono più naturali (e ti credo! Hai distrutto il ginocchio e hai dovuto ri-imparare a camminare! Cosa ti aspettavi?…). La solita storia, insomma. E – come è ovvio – Miami non ha nessun infortunato e si è pure potuta riposare per otto lunghissimi giorni dopo aver facilmente eliminato Milwakee 4-0. Poche speranze, dunque. Ma di nuovo, quello che i Bulls hanno “basta per vincere”, come dice Thibodeau. Chicago vince. Vince perché lotta, distruggendo Miami sotto le plance (46-32 il conto dei rimbalzi per i Bulls), rendendo difficile la vita a Sua Maestà Lebron James (solo 2 punti nella prima metà gara) grazie al sophomore Jimmy Butler che gioca per la terza partita di fila tutti i 48 minuti a disposizione (non capitava una cosa del genere in NBA da dieci anni), segnando 24 punti e raccogliendo 14 rimbalzi e una stoppata, e senza mai demordere recuperano da -7 nel 4° quarto (alla fine segneranno 35 punti proprio nell’ultimo periodo) fino alla vittoria finale 93-86. Miami raramente segna così poco, segno che la difesa anche sugli esterni, e segnatamente sui micidiali Ray Allen e Dwyane Wade e sugli altri tiratori di Miami, ha funzionato alla grande. La serie è diventata incandescente. “Sarà una guerra”, aveva avvertito Noah. “E’ una guerra”, gli fa eco Chris Bosh. E Thibodeau rincara la dose: “We need to play a lot better”, ha detto ieri commentando la vittoria su Miami (e – possiamo tranquillamente ammetterlo – sfiorando il ridicolo). E’ probabile che alla fine Miami vincerà comunque la serie, ma la storia di questa strana squadra –i Chicago Bulls 2012-13- ha molto da insegnare: l’irriducibilità, la compattezza, la voglia di migliorare continuamente e di aiutarsi in campo sono valori che non entrano nelle ipertrofiche statistiche degli sport professionistici americani. Ma rendono appassionante qualsiasi sfida. Tutto è ancora possibile. Per questo è così appassionante, così maledettamente appassionante. E’ il campionato più bello del mondo.
(Nicola Sabatini)