Boris Johnson ha lanciato ieri, con toni da ultimatum, una nuova proposta di accordo tra Regno Unito e Unione Europea che prevede delle novità sul backstop, ovvero il permanere dell’attuale confine non rigido tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda. Nella lettera Johnson dichiara che il backstop è fuori discussione per il suo governo, che vuole riappropriarsi completamente della politica commerciale della Gran Bretagna. Quindi secondo Johnson, alla fine del periodo di transizione concordato da Theresa May che scade il 1° gennaio 2021, il Regno Unito dovrà uscire dall’Unione tutto intero. I soli scambi tra Irlanda del Nord e Irlanda, ovvero l’1% del totale dei beni scambiati tra Uk e Unione Europea, potranno continuare a avvenire senza ulteriori controlli. Su quest’ultimo punto si esprimerà il Parlamento nordirlandese ogni 4 anni. Il Sussidiario ha raggiunto il professor Claudio Martinelli, docente dell’Università Bicocca di Milano, esperto di diritto costituzionale britannico, per capire cosa aspettarci dall’ennesimo colpo di scena in questo scenario confuso.
Partiamo dalla proposta di accordo inviata oggi da Johnson a Juncker. Qual è il fulcro?
La proposta di Johnson rinnega il backstop, che nell’accordo tra la May e Juncker fungeva da barriera: era la clausola di salvaguardia che, nel caso in cui alla fine del periodo di transizione non si fosse trovato un ulteriore accordo, l’Irlanda del Nord sarebbe rimasta nel mercato comune europeo.
Adesso però Johnson ha detto che il backstop va messo da parte.
Esattamente. Ora, alla fine del periodo di transizione la prospettiva è l’uscita, con la previsione di un confine tecnologico tra le due Irlande che non sia invasivo, ovvero senza una dogana che materialmente controlla le merci. L’altra differenza è che Johnson prevede che il nuovo regime sarà sottoposto ogni 4 anni al voto da parte del parlamento nordirlandese, che tra l’altro non è neanche operativo al momento. Fino al 31 dicembre 2020, ovvero la fine del periodo di transizione concordato dalla May, l’Irlanda del Nord resterà nel mercato comune europeo. Dopo, entrerà a regime il nuovo sistema di confine tecnologico, su cui non si può essere più precisi perché nelle note esplicative allegate alla lettera di Johnson ci sono enormi quantità di distinzioni tra i beni.
La proposta di accordo presentata è stata accolta con freddezza in Europa. Quali sono le possibilità che diventi la base per un negoziato?
Le vedo basse, Unione Europea e Repubblica d’Irlanda si sono già espresse in senso contrario. Per loro il backstop era imprescindibile, invece questo accordo nel 2021 fa uscire l’Irlanda del Nord dal diritto europeo. Il patto della May prevedeva che se non si fosse trovato un accordo entro il 2021 l’Irlanda sarebbe rimasta nel mercato unico europeo. Spostava il confine al Mare del Nord, questo invece ripropone il confine terrestre tra le due Irlande.
Una Brexit no deal ora è più probabile?
Forse non si è colto il passaggio di qualità che è avvenuto tra Theresa May e Johnson: un salto nel buio verso il no deal, una prospettiva che la May ha sempre avversato. Ma il suo accordo è stato bocciato tre volte dal parlamento e lei si è dimessa. Johnson non è un euroscettico come la May e Cameron, è del tutto contrario all’euro. Per lui il no deal non è una prospettiva traumatica da escludere: questa è la sua posizione da prima che diventasse primo ministro. Ma nel frattempo è arrivato il Benn act, che obbliga il primo ministro a inviare una lettera per chiedere il rinvio dell’uscita dall’Unione entro il 19 ottobre, se non trova l’accordo con l’Europa.
Glielo impone per legge. Ma è sufficiente a escludere la Brexit no deal?
Il testo della lettera è già nella legge, Johnson deve solo firmarla. Ma l’atto di firma è comunque un atto, e Johnson può rifiutarsi di farlo. Non c’è una norma che lo obbliga a firmarla. Certo, dopo la sentenza della Corte suprema della settimana scorsa, che ha smentito Johnson sulla chiusura del parlamento, è più probabile che firmi, volendo evitare di essere sconfessato di nuovo. Inoltre quella sentenza ha ribadito che la Corte è l’unico arbitro della divisione dei poteri: potrebbe addirittura imporgli di firmare, e un’altra corte potrebbe profilare una responsabilità penale per Johnson. Ma ce la faranno a riunirsi e promulgare la sentenza entro 12 giorni? E se comunque Johnson si rifiutasse di firmare? È una faccenda delicatissima, un conflitto tra poteri come la Gran Bretagna forse non vedeva da secoli.
E se non riescono a chiedere il rinvio? Cosa accadrebbe?
Se non sciolgono il nodo entro il 31 ottobre il trattato europeo, che tra l’altro prevede che il solo paese uscente possa chiedere un rinvio, gli impone di uscire, in questo caso senza accordo. Tra le altre cose, tutti e 27 i paesi dovrebbero essere d’accordo nel consentirgli un rinvio. Secondo diritto, il Regno Unito sarebbe fuori.
A quel punto la situazione sarebbe pesante, il Regno Unito assorbe più del 5% del nostro export ed è il quarto paese al mondo per volume delle nostre esportazioni. Ma non saremmo i soli a preoccuparci.
Sarebbe un disastro, dal 1° novembre al Regno Unito non si applicherebbe più il diritto europeo. A quel punto l’Uk diventerebbe come un qualunque paese appartenente al Wto, soggetto quindi a norme ben diverse da quelle che regolano il mercato unico europeo. La prima cosa che vedremmo in quel caso sarebbero le code dei camion verso i confini con l’Unione, code di dimensioni bibliche.
Secondo lei per risolvere la Brexit si passerà da nuove elezioni o da un nuovo referendum?
Io sono scettico sull’ipotesi di un nuovo referendum. Non perché non sarebbe accettabile: nel Regno Unito è accettabile tutto ciò che chiede il parlamento. Infatti non esiste l’istituto del referendum, il parlamento è l’unico che può indirlo, cosa che ha fatto quando ha chiesto al popolo di pronunciarsi sulla Brexit. Il punto è che un nuovo referendum potrebbe non essere risolutivo.
Perché?
Non si capisce quale potrebbe essere l’oggetto del quesito: il trattato della May o quello di Johnson? Sarebbe un quesito binario? E anche se non vincesse la Brexit, non sapremmo di quale Remain stiamo parlando. Quello di Cameron era chiaro, se votavi Remain sapevi che restavi a certe condizioni pattuite, ora si ritornerebbe a una permanenza britannica nell’Unione Europea secondo le regole antecedenti. Vedo più praticabile la prospettiva di elezioni, il modo in cui da sempre in Uk vengono sciolti i nodi politici.
Come e quando si può arrivare al voto?
Sicuramente entro la fine dell’anno ci sono le elezioni, la maggioranza dei conservatori non sta più in piedi. Bisogna però vedere se le elezioni si svolgeranno prima che la Brexit diventi irreversibile.
Mettiamo che vada così. Che tipo di campagna elettorale avremmo? La Brexit è il tema fondamentale per l’opinione pubblica da almeno 2 anni, secondo i sondaggi di Yougov.
Il corpo elettorale sta chiedendo di prendere una posizione chiara sulla Brexit, cosa che finora non è successa nei due grandi partiti. L’elettorato laburista del nord ha votato per la Brexit, e anche all’ultimo congresso Corbyn ha detto che spingerà per un secondo referendum senza dare indicazioni su come esprimersi. I conservatori sono ancora più divisi: hanno una pattuglia di euro-favorevoli, un grande centro euroscettico di retaggio tatcheriano che prima voleva restare nell’Unione Europea per sfruttarla, e ora cerca la Brexit con l’accordo. Poi c’è un’altra fetta importante, se non maggioritaria: l’ala dei brexiteers, che vogliono uscire dall’Unione a tutti i costi, di cui fa parte Johnson.
Chi ha più da perdere in questo negoziato?
In una fase come questa paga sempre di più il partito di governo: sono troppo divisi sulla questione. Le divisioni riguardano anche i laburisti, ma i conservatori sono al potere da soli dal 2015: ormai hanno dimostrato di non riuscire a trovare una posizione univoca su questo punto.
(Lucio Valentini)