L’IDF evacua Gaza, palestinesi spinti a sud. L'Egitto è ai ferri corti con Israele: non ha risorse per accogliere i profughi e ha paura dei fondamentalisti

Funzionari dell’intelligence egiziana hanno riferito al sito Middle East Eye che Il Cairo di fatto sarebbe stato escluso dalle trattative sulla liberazione degli ostaggi e la tregua a Gaza e che l’Egitto ora teme l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi palestinesi che potrebbero passare il confine attraverso il valico di Rafah. Non per niente il premier Netanyahu ha tuonato sui media israeliani prendendosela proprio con l’Egitto perché vuole impedire la fuoriuscita dei palestinesi dalla Striscia determinata dall’occupazione dell’IDF.



La realtà, osserva Bernard Khoury, direttore italo-libanese del Centro studi sul mondo arabo Cosmo, è che Il Cairo teme di dover accogliere la massa degli sfollati (in teoria temporaneamente) in un momento di grande difficoltà dal punto di vista economico e sociale. Non solo, c’è il pericolo che nel Paese riprendano quota le formazioni fondamentaliste e che il territorio egiziano a lungo andare diventi una base per far partire azioni di ritorsione contro Israele.



Gli egiziani sarebbero ormai ai ferri corti con Israele e temono l’arrivo dei palestinesi allontanati da Gaza. Cosa sta succedendo? La tanto temuta deportazione è in via di realizzazione?

Sul piano politico, nonostante gli accordi di pace tra Egitto e Israele risalgano al 1979, ben prima degli Accordi di Abramo, Il Cairo nelle ultime settimane ha cercato di giocare un ruolo più attivo nelle trattative per Gaza. Uno sforzo che, però, si è tradotto in una sorta di irrigidimento nei confronti di Israele a causa dell’intensificazione delle sue operazioni militari. L’Egitto non ha la forza di attenuare l’intensità dell’iniziativa israeliana, ma teme di ritrovarsi a gestire una situazione umanitaria esplosiva che può comportare grossi problemi di sicurezza.



Di cosa hanno paura in particolare gli egiziani?

Non vogliono trovarsi due milioni di gazawi che scendono verso sud. Il timore è di dover gestire la loro presenza sul loro confine, a Rafah, sulla frontiera, appunto, tra la Striscia di Gaza e L’Egitto. Per il presidente Al Sisi avere tutte queste persone sul suo territorio significherebbe allocare risorse che dovrebbero servire per il welfare interno, in uno Stato che non sta conoscendo un momento particolarmente felice. Se non dovesse accogliere i palestinesi, poi, si troverebbe in un serio imbarazzo ideologico nei confronti del mondo arabo.

Tecnicamente gli egiziani potrebbero gestire un afflusso così ingente di persone?

C’è il rischio di non riuscire a controllare il trasferimento forzato dei palestinesi. Al tempo stesso gli israeliani hanno appena emesso diversi avvisi di evacuazione, soprattutto a Gaza City, e questo significa spingere la popolazione verso sud. È il motivo per cui gli egiziani hanno ribadito la contrarietà a qualsiasi ipotesi di trasferimento della popolazione palestinese, qualificando questa eventualità come una linea rossa da non superare. Ci vedo anche un appello a una solidarietà panaraba che purtroppo non esiste più, un tentativo estremo per impedire ciò che diventerebbe difficile da contrastare nel caso in cui gli israeliani decidessero di procedere con il semaforo verde degli americani.

Tutto questo potrebbe aver portato a un’esclusione dell’Egitto dalle trattative?

Forze israeliane durante le operazioni a Gaza (Ansa)

Più che un’esclusione, la sua influenza potrebbe essere stata intaccata. Ci sono dichiarazioni pubbliche di contrarietà nei confronti delle iniziative israeliane alle quali consegue un indebolimento della posizione egiziana. Il Cairo, però, vorrebbe continuare a dire la sua sulla questione palestinese, se non altro per questioni geografiche.

Netanyahu ha polemizzato con l’Egitto, sostenendo che vuole “imprigionare contro la loro volontà i residenti di Gaza” mentre Israele li farebbe defluire attraverso Rafah: significa che gli israeliani stanno mettendo in conto concretamente l’uscita dei palestinesi dalla Striscia?

Le dichiarazioni di Netanyahu sono una risposta all’irrigidimento egiziano. Trump ha ribadito che Washington è impegnata in negoziati molto approfonditi con Hamas finalizzati al rilascio degli ostaggi, perché a questo punto l’unica opzione che può impedire la prosecuzione dell’operazione a Gaza City, e quindi lo sfollamento forzato dei palestinesi, è proprio la liberazione delle persone rapite il 7 Ottobre. Tutto questo anche se Hamas è restia a un accordo in assenza di garanzie sulla fine della guerra.

Ma ci sono trattative anche con l’Egitto proprio sulla questione degli sfollati?

Immagino che in queste ore ci siano delle trattative a porte chiuse anche con gli egiziani perché loro stessi, a parte le dichiarazioni di natura pubblica, hanno bisogno di garanzie, ma soprattutto risorse e mezzi per gestire eventualmente questo sfollamento, che dovrebbe essere temporaneo, ma che come sempre quando si parla di palestinesi, può diventare definitivo.

Ma se i palestinesi dovessero premere effettivamente sulla frontiera di Gaza, l’Egitto cosa potrebbe fare? Riuscirebbe a fermarli? E tutto ciò cosa potrebbe comportare nei rapporti con Israele?

Agli israeliani non conviene uscire da un accordo di pace proprio nel momento in cui, invece, altri Paesi arabo-sunniti sarebbero pronti a stipulare gli Accordi di Abramo in caso di riduzione del conflitto nella Striscia. Nello scacchiere regionale e internazionale purtroppo l’Egitto non avrebbe altre opzioni se non accettare la realtà dei fatti. Quello che cercherà di fare è avere più garanzie possibili, tramite gli Stati Uniti, sul fatto che sia un’operazione temporanea.

Accettare, anche se obtorto collo, una soluzione del genere, significherebbe, tuttavia, mettere il Paese a rischio di destabilizzazione interna?

Questo è il timore principale del governo egiziano. Parliamo di un Paese che non se la passa molto bene dal punto di vista economico e sociale: rischierebbe rigurgiti da parte delle formazioni che fanno della causa palestinese il loro principale riferimento ideologico, penso alla Fratellanza musulmana o alla Jama’a Islamya.

C’è il rischio che il territorio egiziano diventi una base per lanciare nuovi attacchi a Israele?

Non vedo un rischio immediato in tal senso, perché il Paese è controllato dai militari, dall’esercito e dalla polizia; tuttavia, il primo pericolo che bisogna analizzare è proprio questo.

(Paolo Rossetti)

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