Assoluzione definitiva per gli imputati del processo sulla “trattativa Stato-mafia“, gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, e l’ex senatore Marcello Dell’Utri. Lo ha deciso la Cassazione, mettendo la parola fine con la formula «per non aver commesso il fatto». Dunque, i giudici della Suprema Corte hanno sì confermato le assoluzioni decise dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo nel settembre di due anni fa, in quel caso perché il fatto «non costituiva reato», ma al tempo stesso fatto a pezzi quella sentenza, respingendo inoltre le richieste della procura generale. Con tale verdetto, infatti, non solo è caduto l’impianto accusatorio, ma pare anche la valutazione fatta dalla Corte d’Appello di Palermo riguardo le vicende addebitate, tra gli altri, agli ex ufficiali dei carabinieri Mori, Subranni e De Donno nel periodo delle stragi mafiose, fra il 1992 e il 1994.
La ricostruzione dei giudici d’appello e i giudizi nei confronti della loro iniziativa avevano spinto Mario Mori e Giuseppe De Donno a fare anch’essi ricorso contro la sentenza d’appello, nonostante l’assoluzione. Così come i mafiosi e la Procura generale di Palermo, che insisteva per la condanna di tutti gli imputati. Davanti ai giudici della Cassazione, però, l’accusa contro i rappresentanti delle istituzioni si è di fatto ritrovata senza accusa, perché i pm della Procura generale di terzo grado, come spiegato dal Corriere della Sera, hanno chiesto l’annullamento del verdetto con rinvio a una nuova corte d’assise d’appello, ma solo perché non ritenevano «il fatto» (la presunta minaccia a un Corpo politico dello Stato, ndr) sufficientemente provato. Quindi, era come se chiedevano una nuova valutazione che potesse portare a un’assoluzione ancor più radicale: il fatto non sussiste o non è stato commesso dagli imputati. La Cassazione con la sentenza odierna ha stabilito che quel «fatto» non è stato commesso. Invece, per i mafiosi, essendo stata derubricata l’accusa a «tentata» minaccia al Corpo politico dello Stato, è stata dichiarata la prescrizione del reato.
LA STORIA DEL PROCESSO SULLA TRATTATIVA STATO-MAFIA
Nel 2018, in primo grado, gli imputati furono tutti condannati. Il boss Leoluca Bagarella (cognato di Totò Riina) a 28 anni di carcere, 12 al mafioso Antonino Cinà, il “postino” delle richieste di Cosa nostra alle istituzioni, pena prescritta invece per il pentito Giovanni Brusca. Ma furono condannati anche gli ex comandanti del Ros dei carabinieri Mario Mori e Antonio Subranni a 12 anni, invece 8 all’ex colonnello Giuseppe De Donno, oltre ai 12 anni per l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, ritenuto mediatore dell’ultima fase della trattativa Stato-mafia durante il primo governo Berlusconi (1994). Nel 2021, in appello furono confermate le condanne per i mafiosi, invece furono assolti i carabinieri e Dell’Utri. Per i tre ex ufficiali del Ros perché «il fatto non costituisce reato», il politico per non averlo commesso. In sostanza, l’esistenza della trattativa Stato-mafia era stata confermata in appello, si sosteneva che dopo le stragi del 1992 gli investigatori, con «una iniziativa quanto mai improvvida, oltre che intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti al loro ufficio e ai loro compiti istituzionali», avevano finito per siglare «una sorta di ibrida alleanza» con la componente più moderata di Cosa nostra, guidata dall’altro boss Bernardo Provenzano. Ma ciò avvenne senza bisogno di stipulare un accordo, quindi «solo in ragione di un’obiettiva convergenza di interessi». Ma soprattutto senza la volontà di rafforzare la mafia e la sua strategia stragista, né per «creare le basi di un accordo “politico” con gli stessi autori della minaccia mafiosa», motivo per il quale ci furono le assoluzioni per i carabinieri. L’obiettivo era invece quello «disinnescare la minaccia mafiosa, incuneandosi con una proposta divisiva in una spaccatura che si confidava già esistente all’interno di Cosa nostra, per volgerla a favore di una disarticolazione e neutralizzazione dello schieramento e della linea stragisti». Niente dolo, pertanto niente reato. Per Dell’Utri, invece, l’assoluzione era arrivata «per non aver commesso il fatto».