CATTOLICI E POLITICA/ “Un criterio per giudicare i partiti? La libertà della fede”

- Matteo Forte

L'unico criterio vero con cui decidere per chi votare rimane quello della libertas ecclesiae. L'Autore risponde a F. Campiotti

chiesa cattolici fede sanpietro roma lapresse1280 640x300 In piazza San Pietro (LaPresse)

Caro direttore,
ho letto con interesse la riflessione di Filippo Campiotti sul tema della inconsistenza ed eclissi dallo spazio pubblico dei cattolici sollevato dalle colonne del Corriere della sera da Ernesto Galli della Loggia. “I cattolici non consistono in niente, se non in Gesù Cristo” e dunque “la loro consistenza non è del mondo”. Sono affermazioni giustissime e correttissime. Che non solo sottoscrivo, ma che sono la cifra dell’impegno di ogni cristiano in ogni tempo e circostanza storica. Come tutte le questioni decisive non vanno banalizzate, né si può rimanere alla loro superficie. Occorre scavare in profondità per trovare le radici delle espressioni che si usano e non lasciarle in balìa dei venti di qualunque dottrina, come direbbe San Paolo. Che la nostra consistenza non sia nel mondo è un concetto che può infatti talvolta essere equivocato con una fuga dal mondo, un rifiuto delle particolari circostanze date da vivere perché ritenute “sbagliate” (tentazione sempre in agguato, confesso anche nel sottoscritto) o ancora con il tentativo di salvare il tesoro della fede attraverso un processo di “demondanizzazione”. Quasi che il tentativo di affermare un ideale di società cristiana avrebbe come sua conseguenza quello di snaturare la fede attraverso appunto una sua mondanizzazione.

Eppure questa opzione coincide nei fatti con una rinuncia a testimoniare pubblicamente una visione di persona e società integralmente ispirata dalla fede, che non può limitarsi ad essere concepita ed annunciata solo quando – qui sì, banalizzo, ma è per intendersi – i cattolici sono maggioranza elettorale e il loro successo è assicurato. Anche perché si viene così a creare il paradosso, ed è quello credo che da storico contemporaneo Galli della Loggia abbia inteso evidenziare nel suo articolo, offerto dal saldarsi insieme di demondanizzazione e laicizzazione della società; dove per laicizzazione non si intende la evangelica separazione tra ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare, quanto quell’atteggiamento intollerante verso il fattore religioso che contraddistingue il nostro Occidente contemporaneo e fa dello Stato moderno una “imitazione laicista della concezione teocratica della religione”, come denunciò qualche anno fa la Commissione teologica internazionale (cfr. La libertà religiosa per il bene di tutti, 21 marzo 2019, n. 63).

È un paradosso quello che si crea e si è creato, per cui chi vorrebbe salvare il tesoro della fede dalla mondanizzazione favorisce un processo di laicizzazione ed è anzi ad esso funzionale. Esempio chiarificatore sono quei cattolici che da un lato si dicono favorevoli alla legalizzazione della cannabis allo scopo di contrastare la mafia e dall’altro accusano di essere fomentatori di divisione nella società quanti per esempio si pongono contro l’aborto. Si badi bene che, al contrario di quel che scrive Galli della Loggia, questo tipo di cattolici è molto ricercato, perché confinando la salvezza in un totalmente altro dalle vicende di questo mondo lascia campo libero e legittima nei fatti le tante false “salvezze” offerte dalla mentalità dominante. Dunque il pericolo non è solo l’irrilevanza di certi cattolici, ma pure il danno che essi provocano. Certo è sempre un danno relativo, mai assoluto, né definitivo, perché per quanti errori i cattolici impegnati possano commettere appartengono pur sempre alla Ecclesiam Suam, cioè del Signore. 

E qui torniamo all’incipit, ovvero all’espressione “i cattolici non consistono in niente, se non in Gesù Cristo”. Anche questa necessita di essere sfondata e sfrondata, per evitare di riferirsi ad un qualcosa di talmente vago ed etereo che finisce per essere un puro nome che giustifica ogni nostro solipsistico pensiero. Invece noi sappiamo che Gesù non salva a dispetto della nostra umanità, ma attraverso di essa e rispondendo così magnificamente alla nostra esigenza di sensibilità, prolungando nel tempo la forza della sua presenza con la compagnia della Chiesa. Come giustamente richiama l’articolo di Filippo Campiotti, non è questa la sede per fare digressioni teologiche. Ci basti quindi definire la Chiesa con le parole di Paolo VI, ovvero come una “entità etnica sui generis” in cui ogni membro ha “coscienza di appartenere ad una società speciale, soprannaturale, che fa corpo vivo con Cristo, suo capo, e che forma appunto con Lui quel totus Christus, quella comunione unitaria in Cristo dell’umanità, che costituisce il grande disegno dell’amore di Dio verso di noi, e da cui dipende la nostra salvezza” (udienza di mercoledì 23 luglio 1975).

In questo senso la nostra consistenza non è del mondo, ma siamo pur sempre nel mondo. E sempre in questo senso è possibile stare anche nell’ambito politico e mondano senza per questo conformarsi alla mentalità di questo secolo, ma trasformando e rinnovando la nostra mente (cfr. Rom 12,2). È possibile perché la nostra speranza, e quindi quella di chiunque incontriamo nel mondo, può poggiare su una “società speciale, soprannaturale, che fa corpo vivo con Cristo” e non su un progetto di potere o programma politico, per quanto ben congegnato e scritto da persone competenti. E questo corpo vivo si dirama e si propaga nella società vivendo già al suo interno rapporti di verità, di giustizia, di amore, di reciprocità, animando così opere sociali e offrendo moventi ideali per realizzarne di sempre nuovi e, più in generale, dare origine a corpi intermedi che rispondano alle esigenze di una convivenza civile: la scuola dove far crescere i figli; l’ospedale dove curare con amore e dignità dal concepimento alla morte naturale; dare un lavoro improntato a rapporti che contemplino un giusto salario e un giusto equilibrio tra esigenze di vita familiare e quella lavorativa; creare un’impresa che tra le proprie finalità non abbia solo il profitto, ma anche quella di generare valore per il proprio territorio, per l’ambiente in cui è immersa e per i disagiati che vi incontra; donare del proprio senza aspettarsi nulla in cambio, ma solo per permettere che un’opera di carità considerata un bene per la propria città continui ad esistere; rispettare ugualmente difesa e accusa, come abbiamo imparato dal beato giudice Livatino, considerando i giusti diritti dell’imputato, parlando solo attraverso provvedimenti, e non attraverso giornali e media, e dando l’immagine di indipendenza del magistrato “nella trasparenza della sua condotta anche fuori le mura del suo ufficio”; ecc.

Per questo in fin dei conti l’unico criterio vero con cui decidere dove militare e per chi votare rimane quello della libertas ecclesiae, cioè la possibilità che la società veicoli nella libertà la fede. L’appartenenza o l’assimilazione alla Chiesa consegna dunque un criterio che non si annovera tra quelli del mondo. La crescita economica, il benessere, il giusto rapporto tra debito e Pil, il rispetto di parametri standard, il contenimento dei costi energetici sono tutte cose importanti, ma osservando pure le quali potremmo avere – come molti altri indicatori sembrano suggerirci – una società di disperati. Allora la libertas ecclesiae diventa condizione adeguata perché anche tutto il resto si realizzi. Essa è insieme bussola e motivo di dolore, che però muove e non immobilizza. Bussola, perché permette di orientarsi anche tra le differenti proposte politiche che, da questo punto di vista, per quanto legittime non sono tutte uguali (per rimanere ad uno degli esempi riportati nell’articolo di Campiotti, qualcuno ha difeso la libertà di educazione delle famiglie istituendo il buono scuola e altri l’hanno osteggiato).

La libertas ecclesiae è al contempo anche dolore che muove, perché la divisione tra i cristiani sia superata almeno come tensione ideale pur nelle circostanze storiche avverse. Il criterio della libertas ecclesiae, che il mondo non può e non sa offrirci, non assicura di “azzeccare” il voto, quanto di far emergere attraverso il vaglio critico di esso in cosa consistiamo veramente. Perché la libertas eccelsiae è l’unica cosa che in fondo garantisce nel tempo che “ciò che le istanze di cambiamento della storia umana ipotizzano come ideale, quell’universalità per cui tutto nella vita umana fluisce in unità, qui è conclamato e affermato come punto ontologico di partenza e, quindi, movente e fonte del valore etico, motivo del dinamismo morale e di una costruzione nuova nel mondo, di una realtà umana diversa” (L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, 2003, p. 265).

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