“Cina ha censurato pandemia Covid”/ NYT e ProPublica: “Informazioni manipolate e…”

- Silvana Palazzo

Inchiesta New York Times e ProPublica sull'attività di censura della Cina sulla pandemia Covid: "Informazioni manipolate e censurate per sminuire gravità epidemia"

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La Cina ha “censurato” la pandemia Covid. L’attacco arriva dagli Stati Uniti, ma stavolta non da Donald Trump. Un’inchiesta realizzata da New York Times e ProPublica ha svelato come il governo di Pechino abbia tentato di sminuire l’epidemia, rivelando anche come funziona il sistema di censura cinese. Il discorso pubblico è stato manipolato nei mesi più gravi usando centinaia di migliaia di persone nelle attività di censura e propaganda online, riducendo così la percezione della pericolosità del nuovo coronavirus proprio mentre si stava diffondendo fuori dalla Cina. L’inchiesta, secondo quanto ricostruito dal Post, si basa su 3.200 direttive e 1.800 relazioni che un gruppo di hacker ha rubato deala Cyberspace Administration of China, agenzia cinese che si occupa della regolamentazione di internet ad Hangzhou. E arriva dopo quella della Cnn sugli insabbiamenti.

I documenti sono stati rubati da C.C.P. Unmasked, dove CCP sta per Partito comunista cinese, e passati a NYT e Pro Publica. Ma sono emerse anche informazioni su Urun Big Data Services, società che produce un software usato, ad esempio, dalle amministrazioni cinesi per controllare le conversazioni su internet. L’attività di censura e manipolazione delle informazioni rientra in un meccanismo sofisticato per il quale si usano part-time centinaia di migliaia di persone per la censura e la diffusione di messaggi di propaganda e per la pubblicazione di commenti a favore del regime cinese.

CINA E LA CENSURA DELLA PANDEMIA COVID

La Cyberspace Administration of China, creata nel 2014 dal presidente cinese Xi Jinping per la censura e propaganda a livello locale, da gennaio 2020 cominciò a occuparsi della crisi causata dal coronavirus. Con una direttiva impose a tutti i mezzi di comunicazione di usare solo materiale ufficiale per comunicazioni sul Covid, evitando paragoni con la Sars, anche se l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva individuato similitudini. A febbraio il governo centrale ordinò un’ulteriore restrizione, quindi CAC inviò direttive molto rigide sui contenuti da pubblicare, su come impostare le homepage e persino sulla durata online di un articolo e sui titoli da evidenziare. Dall’inchiesta di New York Times e ProPublica emerge soprattutto che fu ordinato di limitare la percezione del pericolo dell’epidemia e di non usare aggettivi come la parola “letale”. I media non potevano dare notizie sulle donazioni e acquisti dall’estero di dispositivi medici per evitare di lasciar intendere una dipendenza dall’estero e distogliere l’attenzione dal fatto che stavano accumulando grandi riserve di dispositivi medici in una fase in cui il coronavirus si espandeva all’estero. Un’altra prova della censura cinese arriva dalla vicenda relativa alla morte di Li Wenliang, medico cinese tra i primi a dare l’allarme sull’epidemia in una chat di colleghi. Dopo la sua morte, molte manifestazioni di cordoglio online sono sparite.

INCHIESTA NYT E PROPUBLICA: “INFORMAZIONI MANIPOLATE”

Ai media fu, inoltre, indicato – spiega il Post – di esaltare i medici e il personale sanitario, soprattutto se iscritto al Partito comunista cinese. Mentre migliaia di funzionari sono stati usati per diffondere messaggi di propaganda, commenti positivi sui social, indirizzando conversazioni online e segnalando i contenuti controversi da censurare. Si tratta dei cosiddetti wumao, chiamati così perché venivano pagati 50 centesimi di Yuan (6 centesimi di euro al cambio attuale) per ogni commento positivo. Nel 2020 sarebbero stati pagati 160 Yuan (circa 20 euro) per un post di almeno 400 parole, 2,5 Yuan (30 centesimi) per ogni segnalazione di commento negativo. Paul Mozur, giornalista del New York Times che ha lavorato all’inchiesta con ProPublica, ha scoperto che gli uffici locali della CAC realizzano ogni giorno rapporti da inviare alla sede centrale in cui elencano tutti gli account, siti e messaggi chiusi o cancellati, oltre che le attività di propaganda. Non ci sono comunque al momento elementi per stabilire se una circolazione libera delle informazioni nelle prime settimane della diffusione del coronavirus avrebbe cambiato l’andamento della pandemia, ma secondo New York Times e ProPublica emerge chiaramente che l’obiettivo non era solo quello di evitare il panico, ma anche di far trasparire che l’epidemia fosse meno grave e che la risposta del governo cinese sia stata efficiente.





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