Il crudele gioco della guerra. Che a volte è solo una simulazione, altre una corsa verso la sopravvivenza. Eppure in At the end of the day i due piani si sovrappongono duramente, trasformando il campo di gioco – o di battaglia – in una partita a scacchi. Vivere o morire. Cadere o vincere. Scacco matto.
In un vortice di tensione che corre rapido dalla prima allultima scena, senza mostrare mai il fianco alla noia o allovvietà. Non solo nella trama, tratta da una storia vera, ma anche e soprattutto nel tono e nello stile registico. Che per seguire e inseguire i suoi protagonisti nella fitta foresta di morte, abbandona il canone classico e ingessato della regia bon ton e si sporca di verità. E così noi diventiamo parte di loro. Dei buoni, si intende.
Che poi non sono altro che un gruppo di ragazzi – Lara, Riko, Alex, Diana, Thomas, Monica e Chino – a cui piace tanto divertirsi con la guerra simulata, meglio conosciuta come softair. Non ci vuole molto. Due squadre, qualche arma giocattolo, labbigliamento da soldato e il luogo giusto per iniziare a giocare. Peccato che il gruppo finisca in un teatro di morte, una foresta un tempo base militare usata per operazioni segrete e che ora è infestata di mine antiuomo e delle anime dannate di tre pazzi in cerca di vittime da ammazzare. Anche loro giocano alla guerra, ma a quella vera, fatta di proiettili, coltelli, torture. Con uno strano sadismo che assomiglia alla sete di sangue di un vampiro. In una caccia alla preda che non ha tregua.
Dalla prima scena abbiamo la certezza che qualcosa di brutale e doloroso sta per accadere, ma non sapere che cosa, né conoscere lentità del male crea una tensione emotiva disorientante. Che peggiora quando si capisce che le vittime dei tre folli saranno quei giovani ragazzi. E noi ormai siamo uno di loro. Sin da quando osserviamo i carnefici mentre, sogghignando sadici, sotterrano le mine in una pozza acquitrinosa. Il rumore dellacqua agitata dalle mani resta unimmagine fissa, quasi opprimente per tutto il film ed è solo uno dei tanti motivi che rendono latmosfera claustrofobica.
Oltre alla musica, bellissima e inquietante. Perché Lara, Riko, Alex, Diana, Thomas, Monica e Chino sono in gabbia – assediati in un recinto immaginario dai tre uomini armati – e anche noi lo siamo. Anche se basta far finta di chiudere gli occhi per tornare lucidi e focalizzarsi sul problema: si sa benissimo da subito che cosa accadrà, anche se si spera che non succeda. Si sta incollati a guardare con il batticuore, perché in fondo si vuole vedere fino a che punto i cattivi di turno si spingeranno. Quale sarà la punta massima del loro sadismo. E, soprattutto, in che modo Lara e gli altri sopravviveranno.
Perché in questa foresta, che è una gabbia senza confini – o meglio, i confini ci sono, ma si definiscono in uno strano equilibrio tra l’infinito e il labirinto in cui ci si perde – il punto non è la guerra. Né il gioco del gatto che insegue il topo. Il problema è la sopravvivenza. Fuggire non è sopravvivere. Nemmeno agire impulsivamente lo è. Affrontare la paura – e la circostanza – può essere un buon modo per iniziare il cammino verso la salvezza. Il resto vien da sé.
Accade così che Lara, la ragazza che sembrava la più docile del gruppo, è quella che arriva alla fine del gioco. Non fosse che le istruzioni per l’uso prevedono che si faccia scorta di coraggio, che si lotti anche con i denti, se necessario, che si mettano temporaneamente da parte i propri valori, che si sia disposti a macchiarsi di sangue, se questo vuol dire continuare a respirare. Ma soprattutto mai abbassare la guardia.
I minuti passano rapidi, grazie a quel ritmo incalzante che non ci abbandona in nessuna scena. Ogni mossa ne comporta, nel bene o nel male, un’altra, ferma solo nell’esprimere il senso di terrore e di precarietà dei protagonisti.
E noi, sul nero dell’ultima scena, siamo lì, stupiti e contenti che ogni tanto ci sia un film italiano che valga la pena di vedere.