A TESTA ALTA/ La “linea sottile” che premia il film di Emmanuelle Bercot
Scelto per aprire le danze allo scorso Festival di Cannes, il film di Emmanuelle Bercot si è scontrato con un’accoglienza critica piuttosto gelida. La recensione di DARIO ZARAMELLA

Scelto per aprire le danze allo scorso Festival di Cannes, A testa altadi Emmanuelle Bercot si è scontrato con un’accoglienza critica piuttosto gelida. Per alcuni troppo pretenzioso, per altri non all’altezza di una vetrina così importante come la giornata d’apertura. Su una cosa, però, tutti i critici sono concordi, e cioè l’interpretazione superba degli attori, e in particolare del non professionista Rod Paradot.
Paradot interpreta Malony, un ragazzo – lo seguiamo dai sei ai diciassette anni – che si potrebbe definire “sbandato”, che compensa le scarse attenzioni ricevute dalla madre con una forte aggressività e costanti furti d’auto. Il conflittuale rapporto di Malony con la giustizia si esplicita nella figura del giudice (interpretato da una brillante Catherine Deneuve), personalità materna e severa che si prende a cuore il caso del ragazzo, aiutata dall’educatore Yann (Benoît Magimel) e (indirettamente) da una giovane ragazza che si innamora di Malony.
Il rischio di trattare argomenti così socialmente spinosi è quello di cadere nel luogo comune, banalizzando realtà ben più complesse. Non è questo il caso di A testa alta, fortunatamente, e la Bercot dimostra di saper camminare sulla sottile linea che separa il film “impegnato” dalla commercialata strappalacrime. La regia, infatti, non cerca quasi mai il sentimentalismo facile, nonostante sia evidente l’estrema partecipazione emotiva che si vuole instaurare con il protagonista. Non siamo ai livelli di un documentario – troppa poca imparzialità, forte carica drammatica -, ma la volontà di andare in quella direzione c’è e si vede, soprattutto per la crudezza fisica e verbale di alcune scene.
Guardando A testa alta si respira costantemente un’aria di ottimismo che è estranea ad altre pellicole del genere, tra cui il meritevole Mommy di Xavier Dolan. Chi si aspettava un film simile è rimasto deluso, perché l’intento della Bercot è mostrare come, in un tessuto sociale come quello della Francia odierna, lo Stato riesca a farsi carico di adolescenti come Malony, assicurando loro un futuro quanto più tutelato possibile. La scelta stessa dell’attrice a cui affidare il ruolo di giudice la dice lunga sull’intento principale del film: dal volto bonario e iconico, l’attrice simbolo della Francia Catherine Deneuve dona al suo personaggio una carica materna che mette sin da subito in chiaro quale sarà il destino di Malony. In questo senso il film è molto lineare, e, salvo qualche scossone – la scena del rapporto sessuale di Malony con Tess, ad esempio, è efficacemente sgradevole -, non aggredisce mai lo spettatore con un colpo di scena duro e inaspettato.
Emmanuelle Bercot, in sintesi, riesce a rendere interessante un film che vive prevalentemente di dialoghi in interni, aiutata in questo da attori perfettamente “nel personaggio”. Un po’ di “cattiveria” in più avrebbe forse aiutato, ma qui si entra nel reame dei gusti personali, e nulla viene tolto all’oggettivo pregio della pellicola.
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