MANHATTAN/ Il bianco e nero di Woody Allen sull’alienazione contemporanea
DARIO ZARAMELLA prosegue la sua rassegna estiva dedicata a Woody Allen, parlandoci del film uscito nel 1979 e girato in bianco e nero, ambientato nella splendida New York

Il terzo appuntamento con la rassegna estiva dedicata a Woody Allen ha il sapore nostalgico della musica jazz e il romanticismo di una commedia hollywoodiana. Ambientato in una New York più seducente ed elettrica che mai, Manhattan (del 1979) è una storia d’amore e di mezzi sorrisi, di occasioni perse e di alienazione metropolitana.
La prima cosa che salta all’occhio guardando Manhattanè la fotografia. Gordon Willis, già direttore della fotografia per la trilogia de Il Padrino, nonché per lungo tempo collaboratore di Allen, porta sullo schermo una splendida New York in bianco e nero. L’idea di girare in b/n, stando alle parole dello stesso regista, gli è venuta ricordando le vecchie foto che vedeva da bambino, oltre a sposarsi perfettamente con le note di George Gershwin che fanno da sottofondo all’intera pellicola.
Questa volta Allen interpreta Isaac “Ike” Davis, uno sceneggiatore di show televisivi quarantenne che, dopo due rovinosi divorzi alle spalle, intrattiene una relazione con la diciassettenne Tracy (Mariel Hemingway). Per quanto lei straveda per lui, Isaac non riesce a prendere sul serio una relazione così anagraficamente impari, e ben presto si innamora della sofisticata ma fragilissima giornalista Mary (Diane Keaton).
Ho già detto quanto la fotografia del film sia stupenda, ma ancor prima che un mero fatto estetico il bianco/nero di Willis, più vicino a quello di un noir fortemente contrastato che ai toni soft di un Casablanca, sottolinea le tematiche del film, e contribuisce a rendere Manhattan una delle pellicole più raffinate, malinconiche ed eleganti del regista newyorkese, nonché – a mio avviso – una delle più belle.
Se Io e Annie aveva trovato il mix perfetto tra commedia e dramma psicologico, nel di poco successivo Manhattan Allen si sbilancia sul lato del drammatico, arrivando persino a commuovere senza però mai cadere nella pesantezza. Lo stesso Isaac è ben diverso dall’eccentrico Alvy Singer; i due condividono, sì, le ossessioni di fondo – l’autoanalisi, la sfortuna in amore, la critica antiborghese – ma, al tempo stesso, Isaac sembra aver raggiunto una maturità e un “autocontrollo” (almeno esteriore) sconosciuti al primo.
In linea con l’atmosfera del film, Allen interpreta un personaggio che sembra essere sceso a patti con la tragicità dell’esistenza; autoironico e beffardo, Isaac/Allen è un uomo in balia del fato come tutti noi, capace persino di dispensare consigli alla sua giovane amante come un padre affettuoso. Nel loro rapporto si possono già intravedere le dinamiche che costituiranno il fulcro di Basta che funzioni, geniale riproposizione in chiave parodica del conflitto generazionale.
Per tornare a noi, però, dietro alla serietà e alla linearità di Manhattan si cela una delle più autentiche e appassionate analisi dell’alienazione contemporanea, condotte non più con il distacco satirico del cabarettista cinico, ma con tutto il trasporto che un uomo cosciente delle proprie debolezze riesce a trasmettere. È forse questo il primo film in cui Woody Allen accantona in parte la maschera caricaturale dello schlemiel e sembra parlare allo spettatore da pari a pari, come di fronte a un’informale bicchiere di birra in un bar di Manhattan.
Alla sua nona pellicola – un numero ragguardevole per qualsiasi altro regista, ma che per lui rappresenta a malapena un quinto dell’intera filmografia -, a due anni di distanza dal capolavoro Io e Annie, Woody Allen può dire di aver raggiunto la piena maturità artistica, e lo fa con un film che si adagia nel limbo chiaroscuro tra la commedia e la tragedia, tra il giorno e la notte.
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